C’è il corpo perturbante, che crea ansia e disagio, soggetto che scuote le certezze dello spettatore, e quello ambiguo, inafferrabile, dalle identità multiple, che si pone come nucleo della politica radicale e autorappresentazione volitiva sospesa fra due mondi: il mondo esistente e l’«altro», il territorio desiderabile.
Nella storia della performance il corpo è stato sempre un segno mobile, traccia a volte imprendibile di pensieri, idee, progetti, provocazioni. Di fatto, con le liturgie connesse all’azione in continuo mutamento, con la sua incessante progettazione «a partire da sé», il corpo è stato per molti performer, in ogni angolo del pianeta, il teatro (non più una stanza privata e intima) della dissidenza. È lì, sulla pelle, nelle pieghe della carne, che ripetutamente va in scena quella che Teresa Macrì nel suo intenso libro Slittamenti della performance (Postmedia Books, pp. 300 euro 24) chiama una nuova «architettura di senso».

Così, il compito che la critica, docente e studiosa di fenomeni contemporanei si è data ha qualcosa di titanico: ridisegnare un perimetro della storia dell’arte a partire da uno sconosciuto e prismatico body, attraversando – con questo primo volume di un progetto editoriale che ne prevede un secondo – quattro decenni, quelli che vanno dagli anni Sessanta al Duemila. Significa recuperare le testimonianze di una materia che è volatile per sua costituzione, non sempre catturata da video e fotografie che ne documentano il «passaggio».

Già negli anni Novanta del secolo scorso, Macrì si era interrogata su un soggetto futuribile che si affacciava allora nelle gallerie e in stanze insospettabili come le tavole operatorie dei chirurghi: era il corpo postorganico, un ibrido che superava il rischio del fallimento insito nel postumano per dirigersi verso un matrimonio rocambolesco (in un percorso spesso doloroso e di rimessa in gioco perenne dei propri confini) con la materia artificiale. Era il tempo di Stelarc, Orlan, Marcel.Li Antunez Roca che invertivano la rotta e al posto della ricerca di una identità unica, ne preferivano una diasporica, che si ridisegnava scavalcando l’«obsolescenza fisica», considerata – come dirà Orlan più volte – non più un destino ineludibile.

Il libro procede incalzando con capitoli che ogni volta cercano di delimitare un «campo d’azione»: non è semplice proprio per la liquidità semantica insita nella performance stessa. Un po’ come Fluids, quell’opera di arte pubblica che Allan Kaprow inscenò dislocandola in più parti della California: blocchi di ghiaccio che mimavano architetture, paesaggi umani in contrasto a quelli naturali che però si scioglievano, sparendo. È questa la maledizione della performance, la sua impossibile consistenza temporale. Ma l’autrice riesce a costruire una rete di rimandi che mettono insieme gli autonomi tasselli di un puzzle.

Le varie sezioni i del volume segnalano l’incandescenza del «soggetto-corpo» nelle sue differenti declinazioni: c’è chi innesta un trasloco di genere con travestimenti e rinascite metamorfiche come Genesis P.-Orridge che infiammò la scena dell’underground inglese degli anni Settanta; chi (Urs Lüthi) si affida alla nostalgia poetica di altre identità; o ancora, chi come Rebecca Horn si fa scultura del fantastico e incarna l’utopia liberando anche le pulsioni inconsce.

La decostruzione di sé raggiunge l’apice – anche simbolico – in Bas Jan Ader, performer scomparso nell’Oceano Atlantico nel 1975 dopo una navigazione in solitaria sulla sua barca. La sparizione come superamento estremo, abbattimento totale del limite umano.

Un capitolo centrale è dedicato alle esplorazioni del corpo espanso e distruttore di tabù e convenzioni sociali di artiste quali Valie Export, Carole Schneemann, Ana Mendieta (cubana, subì lo sradicamento dovuto al piano «Peter Pan» e poi morirà giovanissima con una caduta dalla finestra dalla dinamica mai accertata, forse spinta durante una lite dal compagno artista Carl Andre). Radicali nell’affrontare l’erotismo e il desiderio, il gender, le pulsioni aggressive della società maschile o nel mimetizzarsi – come impronta – nelle viscere della terra, non temono l’offerta di sangue o di loro stesse, come fece provocatoriamente la giapponese Yayoi Kusama quando nel 1969 propose al presidente Nixon una notte di sesso con lei se avesse fermato la guerra in Vietnam.

Meritoriamente, Macrì intitola un paragrafo alla Black Subjectivity, pur spiegando che non si tratta di ghettizzazione tipo schedatura razziale, ma di «un’esigenza metodologica»: l’intenzione è, infatti, quella di «riportare interamente il gesto espressivo nella sua corrosiva potenza politica/poetica , che proviene dalla propria esperienza e autorialità».

Un attacco all’art system arrivò dal californiano David Hammons (Springfield, 1943) e da quello Studio Z, di cui è tra i fondatori, che riuniva artiste e artisti afroamericani. Una delle sue performance più celebri lo vede sostare in angoli delle strade di New York per vendere palle di neve, pronte a svanire, in beffa al mercato mainstream dell’arte. Poi c’è una figura come Lorraine O’ Grady (Boston, 1934) che affida a comportamenti parodici le identità black, soprattutto per smontarle con atti politici e carnevaleschi. Si fa reginetta di bellezza e simbolizza un outfit da Mademoiselle Bourgeoise Noire: veste un abito bianco intessuto di guanti, quelli del «servo nero» e li correda di una frusta («che faceva muovere le piantagioni»). Il suo è un corpo che trasuda la Storia, rovesciandola in modo sublime.