In una recensione dedicata a Il lago, apparsa nel 1984 sul Corriere della Sera, Goffredo Parise definì quel testo di Kawabata Yasunari una summa del «formalismo freddo e ineccepibile» tipico dell’autore ma anche, a suo parere, l’unico possibile scudo di una società paurosa di fronte a una «realtà che è sempre disonore salvo che nel rito della morte, solo e sublime lavaggio psicoanalitico». In quella e in numerose altre occasioni, procedendo per associazioni assolute e essenzializzanti tra l’opera del «classico» Kawabata e la cultura del suo (bel) Giappone – «misterioso e ben affascinante paese di pazzi» in cui, a suo dire, si respirava un’aria «pervasa da un classicismo cellulare» – Parise contribuì a attribuire all’opera dell’autore quell’aurea di frigida eleganza che tuttora ne caratterizza in gran parte la ricezione italiana. Semplificando una complessità professata irriducibile (certo non da lui solo), Parise fuse l’«enigma-Giappone» – che è presentato nei suoi scritti quale imperscrutabile monolito in cui si stratificano estetismo rarefatto, sensualità e erotismo impenetrabili, osservanza della tradizione, bellezza della natura, e, ovviamente, Buddhismo zen – con i temi e la scrittura del primo autore giapponese a ricevere il Nobel per la letteratura. Parise colse la trama chiaroscura dell’opera di Kawabata e più che nell’appiattirla su un esotico «Oriente» da cartolina – come spesso è accaduto nella ricezione degli scritti più celebri quali Il paese delle nevi o Mille gru – eccedette forse nel servirsene per dimostrare il teorema-Giappone da lui elaborato durante il soggiorno («pellegrinaggio estetico» lo definì qualcuno a posteriori) che portò alla pubblicazione del suo celebre reportage nel 1982.

L’eleganza «assiderata», che l’intellettuale italiano considerava come la chiave di volta per la comprensione del misterioso oggetto «Giappone» ben si confaceva alla fredda sensualità e alla onnipresente «intima consuetudine con la morte» (sono parole di Giorgio Amitrano) presenti in molte delle opere più conosciute del maestro. Lo studioso Donald Keene espresse un’opinione simile scrivendo, negli stessi anni, di quanto risultassero pervasivi, nell’opera di Kawabata, amori mai raggiunti e una sensualità totalmente priva di coinvolgimento: esperienze «osservate più che vissute» – secondo Keene – ritornano costantemente come leitmotiv tematico, ma più che rimandare a un imprinting culturale ineluttabile rientrano, nell’analisi dello studioso di origini statunitensi, nel complesso quadro di una produzione artistica variegata e feconda (Kawabata cominciò da giovanissimo a pubblicare già negli anni venti e scrisse fino a poco tempo prima del suo suicidio nel 1972).

In verità, la storia della ricezione di Kawabata al di fuori dei confini nazionali è piuttosto complessa, inevitabilmente legata com’è al conferimento del Nobel per la letteratura nel 1968. Quel premio non sancì solamente la consacrazione dello scrittore nipponico sulla scena internazionale, ma esplicitò – come ha notato la sociologa della letteratura Pascale Casanova – la «volontà dichiarata della giuria di permettere, attraverso il premio dato a Kawabata, di integrare il romanzo giapponese nella corrente mondiale della letteratura». L’implicazione politica delle scelte dell’Accademia Svedese è certamente una costante di quello che è considerato in assoluto il più importante fra i meccanismi di consacrazione letteraria, ma il «caso Kawabata» assunse un ruolo di spiccata rilevanza alla luce delle politiche culturali americane riferite al Giappone postbellico. Il filtro operato attraverso la resa nella «lingua dominante» inglese di alcuni – e non altri – scritti di Kawabata condotta dal traduttore statunitense Edward Seidensticker non solo dettò a livello internazionale il canone della cosiddetta «letteratura giapponese moderna», ma consegnò agli occhi del mondo una immagine ben precisa e omogenea del Giappone post-occupazione.

Il lavoro di Seidensticker e di altri studiosi e traduttori statunitensi (tra cui Keene) fu preziosissimo in quanto permise, prima di tutto al pubblico anglofono (ma partendo dai loro lavori furono realizzate varie traduzioni «di seconda mano» in molte altre lingue, tra cui l’italiano), di conoscere autori come Tanizaki e Mishima, oltre a Kawabata. Le scelte di scrittori e opere, tuttavia, non furono di certo anodine. L’operazione traduttiva poi risultò spesso addomesticante, a volte assai prossima alla riscrittura, soprattutto per quanto riguarda i pochi testi pubblicati negli Stati Uniti nella seconda metà degli anni cinquanta – dal Paese delle nevi a Mille gru, al racconto La ballerina di Izu) che permisero l’attribuzione del Nobel.
Un Giappone «bello» e delicato come un foglio di carta washi o il (consueto e abusato) caduco fiore di ciliegio, totalmente dissociato dal cruento immaginario bellico e rivolto a una tradizione premoderna popolata da geishe, maestri di cerimonia del tè e poesia zen: questo il quadro che emerse dalle opere tradotte, capace di condizionare la ricezione dominante in Europa e in America di quella che è tuttora spesso considerata una «creazione pura e trasparente», come ha notato la critica francese Cécile Sakai.

Certo, Kawabata contribuì a rafforzare questa immagine quando, consegnatogli il Nobel per «avere espresso con grande sensibilità l’essenza dello spirito giapponese», intitolò il proprio discorso di ricevimento del premio con una espressione che, alla lettera, significa «Io del bel Giappone» (e che in italiano venne tradotta Maria Teresa Orsi, nei Meridiani, «La bellezza del Giappone ed io»). Non parlando mai dei propri scritti, Kawabata scelse per sé (coerentemente anche con il ruolo di presidente del Japan P.E.N. club da lui rivestito per anni) il ruolo di ambasciatore del «Giappone» al mondo, restituendo l’immagine di uno sviluppo culturale diacronico perfettamente armonioso, univoco e omogeneo, eludendo qualunque possibile accenno alla realtà contemporanea.

Non solo: allo sperimentalismo che aveva informato la sua scrittura fin dagli esordi, alla varietà dei generi frequentati e alla complessità del suo stile elaborato, nessuno – compreso lui stesso – fece cenno. Eppure, come nota Giorgio Amitrano (a cui va – tra gli altri – il grande merito di aver ritradotto in italiano all’inizio degli anni duemila Il paese delle nevi per il Meridiano da lui curato), l’opera di Kawabata è caratterizzata da una «ricchezza di sfaccettature non sempre riconosciuta»: il commento dello studioso italiano è contenuto nella postfazione a Prima neve sul Fuji, raccolta di racconti da lui tradotti, ripubblicata recentemente da Einaudi nella collana «Letture» (collocazione che di per sé orienta la proposta a un pubblico di non neofiti, pp. 232, euro 18,50). Le brevi narrazioni – pubblicate in Giappone negli anni cinquanta e selezionate per essere riunite in volume dall’autore stesso nel 1958 – offrono uno scorcio su alcuni aspetti meno noti della vastissima produzione di Kawabata, la cui opera omnia in giapponese è costituita da ben trentasette volumi compositi.
Si fa fatica a riconoscere la figura dell’algido esteta tracciata da Parise dietro a alcuni di questi racconti in cui prevale il tema sentimentale: racconti vicini, come ricorda Amitrano, alla letteratura di genere che l’autore frequentò in quegli anni pubblicando su riviste femminili e sperimentando forme ritenute meno «pure» e più rivolte alle masse; ma traspare nettamente – nella maggior parte delle brevi storie narrate, spesso prive di uno sviluppo «architetturale» dell’intreccio – quella «poetica della tensione», come l’ha definita Sakai, che associa il principio dell’ellissi narrativa alla sovrabbondanza di immagini retoriche e tematiche.

Alcuni testi ricorderanno al lettore di Kawabata lo sperimentalismo dei Racconti in un palmo di mano, altri richiameranno alla mente personaggi, situazioni e visioni di Bellezza e tristezza o del Suono della montagna; ma sicuramente il filo rosso che attraversa l’eterogenea raccolta sta nella riflessione sulla caducità delle passioni e sulla possibilità dell’espressione artistica di fissare in una forma che superi il tempo ciò che il tempo stesso inevitabilmente cancellerà, nel ciclo dei ritorni che hanno in sé l’effimero, come l’annuale prima neve sul monte Fuji o l’insoddisfacente ritrovarsi di due amanti destinati a perdersi di nuovo.

Pluralità di significati e pluralità di interpretazioni si fondono nel racconto Silenzio : «il maggior poeta della vecchiaia e della morte», come lo definì Parise, tesse qui un’articolata sequenza di racconti cornice in cui uno scrittore va a rendere visita a un altro scrittore, più anziano, costretto alla paralisi e all’afasia, Il senso riuscirà a essere trasmesso, anche senza voce, attraverso un monologo interiore che racconta della complessità di dire il silenzio, e si interroga sulla necessità stessa di usare la parola. Come nelle immagini riflesse, che spesso aprono scorci di luce nel gioco di chiaroscuri di cui è fatta la scrittura di Kawabata, questi testi «minori» fungono da contrappunto a un’intera opera che merita di essere apprezzata nella sua complessità, superando (finalmente) obsolete semplificazioni orientalistiche.