Il 19 gennaio del 2014, durante i festeggiamenti per l’Epifania ortodossa, una donna di Štip, in Macedonia, si getta in acqua per recuperare la croce lanciata nel fiume dal prete come da tradizione, e riesce a prenderla sconfiggendo tutti i rivali maschi. Ma la sua vittoria è uno scandalo: non è previsto che le donne competano per impadronirsi della croce, che lei però rifiuta di restituire.
Alla sua storia è ispirato Dio è donna e si chiama Petrunya, il film di Teona Strugar Mitevska presentato in concorso alla Berlinale 2019, nelle nostre sale da domani e vincitore del premio Lux del parlamento europeo. «All’inizio non avevo idea che il film avrebbe raggiunto un’audience così ampia, ma in fondo credo sia vero che ogni donna, e non solo, può identificarsi in ciò che accade alla protagonista. La lotta di Petrunya riguarda la giustizia, l’uguaglianza, tutte cose fondamentali nella costruzione di un mondo che sia migliore di quello in cui tutti viviamo», spiega la regista che ha esordito nel 2004 con How I Killed a Saint, autrice anche di When the Day Had No Name (2017) e fondatrice insieme alla sorella Labina – che in Dio è donna interpreta la giornalista che vuole raccontare la storia di Petrunya – della casa di produzione Sisters and Brother Mitevski, con la quale ha lavorato, tra gli altri, con Nuri Bilge Ceylan e Cristi Puiu.

Perché ha deciso di trarre un film da questa storia vera?
Era un’opportunità per parlare di noi, di me in quanto donna dei Balcani. Ciò che è accaduto a Štip mi riguardava: conteneva tutti gli elementi che, crescendo in una società tradizionale, sono stati per me motivo di frustrazione, tutto ciò contro cui volevo combattere. Un’altra cosa che mi ha molto colpita è stata la reazione dei media a quello che era accaduto. La donna è stata molto chiara sul perché del suo gesto: ha spiegato che era convinta di poter nuotare più veloce di tutti, e di essersi chiesta perché in quanto donna non aveva diritto a partecipare. Ma i media hanno parlato di ciò che aveva fatto come di una storia buffa, curiosa… Lo trovo folle: come può la società rifiutarsi di riconoscere il coraggio di questa persona, di discutere di ciò che ha fatto e del perché?

In «Dio è donna e si chiama Petrunya» però i media sono rappresentati in modo diverso, attraverso una giornalista che inizia a seguire la storia di Petrunya con l’intento di fare uno scoop e poi scopre la solidarietà nei suoi confronti.
La sua motivazione è molto ambiziosa, ma poi col progredire della storia capisce che raccontare la vicenda di Petrunya è un modo per liberare anche se stessa, di realizzarsi. Il suo inizialmente doveva essere un personaggio minore, che ha preso vita mano a mano che il film procedeva. Mi piaceva che ci fosse solidarietà fra queste due donne, un’ «alleanza» nella lotta per una causa comune.

Contro Petrunya si mette in moto l’intera società: le forze di polizia, la chiesa, la stessa società civile.
Questo è semplicemente un elemento che ho ripreso dalla realtà. Quando la donna a cui è ispirata Petrunya si è impossessata della croce la sua vita è sprofondata in un inferno, l’intero paese le si è rivoltato contro. Dopo che ha rifiutato di restituire la croce non poteva neanche camminare liberamente per strada della sua città: se avessimo vissuto nel medioevo l’avrebbero lapidata. La vita è diventata così difficile per lei che ha lasciato la Macedonia.

Nel film la sua decisione di tuffarsi non è pianificata, è istintiva. Ma poi, sempre più, quella di non cedere la croce diventa una scelta consapevole.
Con la cosceneggiatrice Elma Tataragic abbiamo pensato che sarebbe stato interessante far svolgere tutta la seconda parte del film dentro la stazione di polizia: diventa il luogo dove convergono tutti gli elementi della storia. Ma mentre scrivevamo non avevamo idea del finale, per la prima volta ne ho girato più di uno: quello definitivo l’abbiamo scelto in sala di montaggio sulla base del fatto che a quel punto, per noi, in Petrunya c’era tutto ciò che io e Elma vorremmo essere, raggiungere, vedere. Trovo che il suo personaggio sia straordinario, nella sua ribellione quanto nella sua saggezza. Incarna un modo nuovo di ispirare il cambiamento. Mi fa pensare a donne come la nuova prima ministra della Finlandia, Sanna Marin – ora vedremo come se la caverà – o a una donna che ammiro come la premier neozelandese Jacinda Ardern: in comune hanno un approccio diverso alle cose, non si comportano come la gente si aspetta da loro.

Anche il mondo del cinema è maschilista.
Rispetto a quando ho iniziato a fare cinema, 17 anni fa, c’è stato però un miglioramento notevole. Anche se c’è ancora molta strada da fare: le donne dovrebbero ricoprire più ruoli decisionali – nella distribuzione, alla guida dei festival … – è questo adesso il soffitto di cristallo.