Arcadia, e il suo frequentatore «arcade», sono oggi sinonimo di qualcosa o qualcuno fuori del mondo e della realtà, chiuso in un mondo pastorale e bucolico di assoluta separazione dalla storia, dalla civiltà, e insomma dalla vita quotidiana, normalmente priva di voli poetici o «boscherecci». In realtà quell’Accademia poetica nata nel ‘700 e tuttora esistente, almeno come apparato culturale di tradizione letteraria, i suoi scopi li aveva, e nemmeno troppo peregrini rispetto all’invadenza (oltre ad altri caratteri sistematici come violenza o volgarità) dei reami assoluti di allora, politici o temporali come quello del papato che governava Roma.

La possibilità di sbirciare, nonostante il caldo increscioso e zanzaresco di questi giorni, dentro la magnificenza della sua storica sede alle prime falde del Gianicolo, e di ascoltare quei versi improvvisati ma neanche troppo pazzerelli di eruditi e poetesse alla vigilia dell’89, l’ha offerta ora una «rappresentazione» che è un saggio degli orizzonti culturali di tre secoli fa. Una operazione che ben rientra nell’amore di Marilù Prati, regista e attrice, per le sfide più rischiose. Che ogni volta poi rivelano il proprio fondamento di interesse. Qui, a patrocinare l’iniziativa, c’è ovviamente l’Accademia dell’Arcadia (oggi costituita da accademici in senso universitario) e il Dams di Roma 3, nel cui ambito ha preso vita il laboratorio teatrale in cui l’iniziativa si è sviluppata (e ieri prima dello spettacolo Raimondo Guarino ha inquadrato storicamente la rappresentazione). Da quel laboratorio provengono Giuditta Pascucci e Valerio Rosati, mentre una lunga storia (e fama riconosciuta) ha Stefano Poggelli, mago di antichi suoni e di mirabolanti strumenti d’epoca.

L’anfiteatro che corona l’ingresso dell’Arcadia offre l’ambientazione quasi iperrealista a quei tornei poetici, mentre i costumi scelti da Bice Minori (creature silvestri e abati tonacati, croniste d’alto bordo e ambigui gran maestri) danno perfino ironia a quella cieca fede nella poesia. Tre sono le creature che danno titolo alla esibizione poetica: Corilla, Corinna e Amarilli. La prima e la terza realmente esistite, e ingarellate con passione nell’esercizio del verso bucolico, la terza (e certo la più conosciuta) è la protagonista del famoso racconto/pamphlet di Madame de Staël Corinne ou de l’Italie. E della indomita intellettuale francese si sentono le lettere, appuntite e circostanziate, che scriveva al suo amico Vincenzo Monti nei primi anni del XIX secolo, mentre assisteva a quelle tenzoni poetiche.

Che per le poetesse si rivelavano davvero liberatrici, dato che permettevano loro di entrare nella mitologia, assumendola in prima persona, e trasfigurandosi in semidee nella centralità arcadica della poesia (anche se all’eterna rincorsa di Petrarca che di alloro fu incoronato in Campidoglio, e perfino di Torquato Tasso, che follia e debolezza non fecero arrivare vivo a quell’appuntamento fatale con il destino e l’onore).