Il 2022 ci ha lasciato una pessima eredità e da tempo ciò è la regola ogni anno nuovo. Degna conclusione di un anno deprimente iniziato nel peggiore dei modi -l’invasione russa dell’Ucraina- è stato lo spettacolo indecente dei mondiali di calcio in Qatar. Al centro dell’attenzione di tutti i media, sono stati tanto desolanti sul piano sportivo quanto intollerabili sul piano del disprezzo dei diritti umani. Nonostante l’impegno per creare un “evento”, costruito fin dall’inizio attorno a Messi (un giocatore di grande tecnica e, al da tempo stesso, freddo imprenditore di se stesso), il giorno dopo, a spettacolo finito, il vuoto di prospettive che si era sforzati di colmare è apparso ancora più evidente e il senso della miseria in cui viviamo si è ingrandito.

I segnali di un disastro generale non sono più allarmanti. Sono nefasti. È tempo di svegliarci. Smettiamo di interrogarci su cosa fare. In un momento di grave crisi dell’intero assetto di vita mondiale, in cui raccogliamo ogni giorno i cocci del giorno prima, è retorica pura. Bisognerebbe chiederci, invece: «Cosa abbiamo fatto per essere a questo punto? Se siamo in buona fede quali sono i nostri errori preterintenzionali, in cui persistiamo, che spianano la strada alle azioni intenzionali di chi è in cattiva fede?».

Non c’è bisogno di grande chiaroveggenza per capire quali sono i pericoli che annidati nel passato come tendenze pervasive e covati nel presente come processi distruttivi incomberanno su di noi dal futuro, travolgendoci. Basterebbe citare i tre principali (ricordando la loro stretta interconnessione).

Il primo è la sconcertante concentrazione di ricchezza e di potere nelle mani di pochissimi oligarchi: un fenomeno la cui violenza esplicita si estrinseca in Putin, ma che sviluppa il suo potere più devastante in silenzio, attraverso la sua enorme forza corrompente (la persuasione operante attraverso il denaro, la manipolazione dell’informazione, la determinazione dei gusti e la perversione dei desideri in bisogni) che ha messo fuori gioco la classe politica condizionandola in tutti i modi.

Il secondo è l’isolamento sociale, la distruzione dei luoghi comuni di scambio sul piano degli affetti, delle idee e delle creazioni culturali che ci ha resi ingranaggi di una macchina collettiva impersonale.

Il terzo è la distruzione ambientale (ormai fuori controllo) che se, da una parte, è determinata dalle prime due, dall’altra crea una situazione di emergenza permanente che le favorisce. La democrazia non avrà un futuro, se non si opporrà con determinazione a queste sventure, impedendo che continuino indisturbate il loro cammino. E ciò non accadrà se nel mondo, a partire dai paesi democratici, non si risveglia dal suo letargo la società civile. Fortemente sedotta e sedata dalle false promesse di una vita priva di conflitti e di fatica, è stordita, disorientata dagli effetti speciali in cui ha creduto di vedere un futuro luminoso.

Dobbiamo prendere atto della nostra compartecipazione a ciò che ci minaccia. A partire dal senso di comodità (l’assuefazione al medesimo) che ci rende troppo remissivi con la tecnologia, un servo che non solo può servire indifferentemente le cause buone e quelle cattive, ma può anche diventare, attraverso l’inerzia che induce, uno spietato, anonimo padrone del nostro destino. Se la tecnica, che oggi è idolatrata, non è guidata dalla visione globale di cui è capace la bistrattate cultura, è pericolosa. Stare in casa e comunicare a distanza non fa bene: ci rende opachi a noi stessi. Uscire solo per sfogare la tensione accumulata nella clausura volontaria ci spersonalizza. Adattarsi all’esistente, perché è più semplice, ci rende «resilienti»: materiale non umano, buono per tutte le circostanze e per tutti gli usi. Pensare di cambiare il mondo attraverso l’uso delle parole corrette ci istupidisce. Che il 2023 porti un po’ di risveglio dei desideri e del pensiero.