Sono due i festival del cinema attorno ai quali si focalizza l’attenzione degli appassionati e degli addetti ai lavori dell’arcipelago nipponico prima della sbornia festivaliera autunnale, lo Yubari International Fantastic Film Festival e lo Skip City International D-Cinema Festival. Il primo si svolge ogni anno nell’Hokkaido, l’isola più a nord del Giappone, in una cittadina che nel passato ospitava uno dei complessi di miniere di carbone più estesi del Paese, mentre il secondo nella prefettura di Saitama, non troppo lontano da Tokyo.

Le due manifestazioni, che si sono concluse da qualche settimana, sono assai diverse, se il festival di Yubari, attivo in diverse forme dal 1990, è dedicato al cinema fantastico e di genere, lo Skip City Festival nasce invece nel 2004 come festival del cinema digitale, quando il passaggio alla nuova tecnologia non era ancora avvenuto, e ora offre una panoramica sulle opere di giovani autori giapponesi ed una selezione di film provenienti dal resto del mondo. Dall’inizio della pandemia, tra cancellazioni e edizioni ridotte, i due festival hanno cominciato a sperimentare con edizioni online, e quest’anno che entrambi si sono svolti in loco, anche ibride. Da Yubari anche in questa edizione sono uscite opere di diversa caratura, molti sono film a bassissimo budget che consapevolmente giocano con il fatto di essere film di serie B, ma che non sempre centrano l’obiettivo. Interessanti in questa edizione sono stati Daruma, diretto da Daiki Matsumoto, un lavoro che prende in giro i film di yakuza e soprattutto il premiato Anemone: A Fairy Tale for No Kids, commedia nera sudcoreana diretta da Jung Ha-yong, che raccontando la storia di una famiglia proletaria che vince la lotteria, mette alla berlina il senso di arrivismo e l’ossessione per il denaro presente in certi strati della società.

Ambientato nello stesso Hokkaido è invece Bear and Father, metafilm con cui il regista zainichi, coreano di terza generazione nato e cresciuto in Giappone, Ju Hyeong Jeong riflette su un film amatoriale che l’anziano padre voleva realizzare da lungo tempo. La storia apparentemente banale si interseca con i paesaggi bianchi di Yubari e con le immagini surreali del film nel film, padre e figlio vestiti da orso e da uomo primitivo che deambulano nella neve.
Per quel che riguarda il Skip City International D-Cinema Festival invece, a vincere il premio principale è stato Journey di Shogo Kiriu, lavoro di fantascienza filosofica, mentre ad aggiudicarsi quello come miglior film Double Life, della regista cinese ma studentessa in Giappone Enen Yo. Elegante e minimale nella sua messa in scena, il film è probabilmente influenzato dal cinema di Ryusuke Hamaguchi, che inizia ora ad avere epigoni, fatto che ci dice molto sull’impatto che l’autore esercita sulle nuove generazioni di cineasti, non solo per l’uso di classi di recitazione e danza come motore narrativo, ma anche perché ricorda molto da vicino le atmosfere create dal regista di Drive My Car.
Soprattutto le ambigue relazioni interpersonali che si sviluppano fra i protagonisti, qui una giovane donna che scopre la distanza che la separa da suo marito, scoperto a tradirla, e che per vendicarsi ingaggia un partner a noleggio. La linea che demarca la performance dalla realtà di questo «attore» pagato è sottilissima e mette a nudo i meccanismi che di solito sembrano funzionare in maniera naturale nella coppia. Come si scriveva più sopra, l’idea non è certo originale, ma nonostante ciò si tratta di un debutto davvero folgorante per la giovane Enen Yo, coadiuvata da un’ottima prova attoriale di Atsuko Kikuchi, nel ruolo della protagonista.

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