Quello che accadde la sera dell’11 novembre 1966 alla Mitten Hall della Temple University di Filadelfia ha dell’incredibile. A leggere il resoconto e le testimonianze del concerto del quintetto di John Coltrane con Pharoah Sanders, Alice Coltrane, Sonny Johnson (che qui sostituisce Jimmy Garrison) e Rashied Ali, coadiuvati da un gruppo di percussionisti del posto – Umar Ali, Robert Kenyatta, Charles Brown, Algie DeWitt -, e dagli interventi al sax alto di due musicisti non previsti nella formazione, ha il sapore sgangherato e grandioso dei grandi eventi che solo più tardi saranno considerati tali. Dopo alcune registrazioni pirata parziali e di bassa qualità, la performance si può ora ascoltare nella sua integrità – anche se la qualità del suono, pur essendo notevolmente migliorata, rimane comprensibilmente limitata, specie per quanto riguarda gli strumenti in seconda linea nel palco dietro ai fiati, in particolare il contrabbasso -, nel doppio cd dal titolo Offering: Live at Temple University pubblicato dalla Verve/Resonance Records, contenente anche un corposo booklet di immagini dell’epoca che impreziosiscono un bel saggio di Ashley Kahn.
A organizzare la serata fu l’associazione studentesca dell’Università che più tardi, sul giornale della scuola, si sarebbe lamentata per averci rimesso, rilevando inoltre come il pubblico fosse rimasto insoddisfatto dell’esibizione del gruppo. In effetti, il grande auditorium che poteva contenere milleottocento posti vide la partecipazione di sole settecento persone, e non è da escludere che molti se ne siano andati a concerto da poco iniziato. C’è da credere, tuttavia, che coloro che decisero di rimanere non se lo dimenticarono tanto facilmente. Ma tutto questo fa già parte della querelle intorno all’estrema sperimentazione dell’ultimo Coltrane, nel periodo che va dalla fine del 1965, dopo la pubblicazione del mirabile A Love Supreme con il cosiddetto «quartetto classico», alla morte del musicista avvenuta per un cancro al fegato il 17 luglio del 1967 a soli quarant’anni. Musica che a molti apparve a dir poco controversa (si parlò di urla e suoni sfrenati, di rumore e addirittura di «anti-jazz») e che per questo fu fatta oggetto di una presa di distanza se non di una vera e propria rimozione durata peraltro per parecchi decenni ancora, ma che indubbiamente merita per molti aspetti di essere attentamente studiata sulla scorta, tra gli altri, dei lavori di Lewis Porter e delle osservazioni del figlio di Coltrane, Ravi. Ora questa pubblicazione ne offre un’ulteriore possibilità.
Tra le particolarità del concerto vi fu l’intervento in Crescent dell’altosassofonista Arnold Joyner, il quale – mentre Alice concludeva il suo assolo al pianoforte – salì sul palco senza che nessuno lo invitasse, s’avvicinò al microfono e si mise a suonare in pieno spirito da jam session. Poi pensò di averla fatta grossa, ma intanto l’aveva fatto. Un altro altosassofonista, Steve Knoblauch, avendo l’astuccio del suo strumento a tracolla era stato scambiato per un musicista del gruppo; riuscì così a infilarsi nel backstage prima del concerto e dire qualche parola a Trane che vedeva per la prima volta. Ebbene, più tardi, durante l’esecuzione di My Favorite Things, Coltrane evidentemente si ricordò di lui e lo andò a cercare per chiedergli se voleva unirsi al gruppo per un assolo. Non era certo la prima volta che capitavano cose del genere e altre ne sarebbero successe, ma questo spinge sempre in qualche modo a chiedersi dove inizi il jazz e dove finisca. Se davvero, com’è stato detto, il jazz è la democrazia o, almeno, una sua declinazione che resta, beninteso, ogni volta da fare, la partecipazione e l’esposizione ne sono gli elementi semplici, primordiali, e si accompagnano alla sorpresa di cose che accadono sul filo dell’improbabile o dell’impossibile.
Ma ciò che rende unica questa registrazione è qualcos’altro: la voce di Coltrane. Per tre volte (due in Leo e una in My Favorite Things), egli vocalizza a volte battendosi il petto. Nel corso dell’improvvisazione si mette a cantare riprendendo e sviluppando il fraseggio del sassofono, come a rimarcare dei piccoli gruppi di note, le cosiddette «cellule», che delineano una struttura quasi impercettibile nel profluvio torrenziale e dilatato al massimo del suono di quegli anni. Usare il proprio corpo, nel contempo, come cassa di risonanza per il respiro che si fa voce e come tamburo in picchi di intensità impressionanti è qualcosa che ricorda antichi riti e riporta alle origini dell’umanità. Che la tanto dibattuta spiritualità di Coltrane avesse come passaggio obbligato il corpo, basterebbe questo a mostrarlo.
Non si può non pensare con sgomento al fatto che otto mesi dopo questo concerto Coltrane se ne sarebbe andato. E tuttavia qui nulla vaticina o testimonia della morte incombente. Non Naima, il brano di apertura, senza più alcuna traccia del pedale che l’aveva reso famoso dal punto di vista armonico nel 1959, dove Coltrane decostruisce e ricostruisce con selvaggia precisione e inventiva la struttura del pezzo, senza mai lasciar riconoscere – se non alla fine, come in un abbandono – il tema, mentre Alice tesse un assolo di grande intensità e intelligenza. Non Crescent, che nella prima parte di questa lunghissima versione vede Sanders emergere con il suo tipico fraseggio da angry young tenor, pieno di grida, suoni stridenti, gemiti e brontolii, portando il brano dall’iniziale e tersa esposizione/esplorazione del tema da parte di Trane verso una profondità abissale e allucinata, accentuata dal fermento della batteria e delle percussioni. Seguono gli assoli di Alice e di Joyner, mentre nella parte finale il tenore di Coltrane è semplicemente sbalorditivo. E ancora: non Leo, orgiastica ed estatica con l’assolo di Ali che sembra sfuggire in ogni direzione con inusitata potenza e vitalità. Non My Favorite Things, brano di chiusura dopo la larga, pensosa ed evocativa Offering. Il pezzo inizia con l’incisivo contrabbasso solo di Johnson, così come avveniva ultimamente con Jimmy Garrison, per finire con l’ennesima, impressionante, estenuante e a un tempo lucidissima improvvisazione di Coltrane, la quale sembra sempre sul punto di toccare un centro che, tuttavia, non smette di differire e svanire.
L’esperienza del quartetto classico si esaurì perché Coltrane voleva seguire vie nuove – trovare l’«essenza», diceva. D’altronde, l’aveva sempre fatto: dall’esplorazione instancabile delle combinazioni armoniche sul finire degli anni Cinquanta, al debordante primato della melodia nel periodo modale dei primi Sessanta. Ora non voleva più seguire un tempo continuo e anche per questo McCoy Tyner e Elvin Jones se ne andarono. A Garrison chiese di rinunciare al walking bass, di cui era maestro, per strappare le corde e suonare frasi spezzate, aprendo ancora una volta il tempo anziché custodirlo. Ali suonava ritmi in costante trasformazione, Alice era a suo agio nella politonalità e, quanto a Sanders, lui pensava di azzerare tutto. Quella dell’ultimo Coltrane è una musica senza punti di riferimento fissi o livelli da cui osservare e controllare l’evolversi di altri livelli. Una struttura che non prevede spazi sicuri, e dove capita che la materia della musica si bruci nell’energia del suono. Difficile, arrischiato, e tuttavia immenso.