Che cosa c’è in un nome? Parafrasando William Shakespeare, potremmo dire che quello che chiamiamo telescopio continuerà pur sempre a osservare le stelle se anche lo chiamassimo con un altro nome. Eppure, da qualche mese, quattro combattivi membri della comunità astronomica hanno lanciato una campagna esigendo alla Nasa di cambiare il nome del suo prossimo telescopio spaziale: il successore dell’emblematico e ormai iconico Hubble Space Telescope, che tante immagini mozzafiato ci ha regalato in questi ultimi decenni e che ha permesso alla ricerca astronomica di fare passi da gigante.

QUESTO NUOVO TELESCOPIO, il maggiore progetto astronomico degli ultimi decenni, che dovrebbe essere lanciato alla fine di quest’anno, oggi porta il nome di James Webb Space Telescope. Se Edwin Hubble può essere identificabile per molti, anche fuori dalla ristretta cerchia degli astronomi – fu un cosmologo che per primo negli anni Venti capì che la nostra non era l’unica galassia dell’universo e, di fatto, allargò la nostra concezione del cosmo – Webb è certamente un personaggio abbastanza sconosciuto ai più. Tanto per cominciare, non era uno scienziato: fu il secondo amministratore della Nasa, fra gli anni 1961 e 1968, quindi gli anni chiave per completare il programma che portò per la prima volta gli esseri umani sulla luna. In altre parole, gli anni d’oro dell’agenzia spaziale statunitense.
Fu uno dei suoi successori, Sean O’Keefe, il repubblicano voluto da George W. Bush alla guida della Nasa, che nel 2002 decise di dare il nome di questo burocrate al progetto icastico dell’agenzia, sollevando già all’epoca non poche perplessità, dato che normalmente ai telescopi o osservatori che vengono battezzati con nome proprio è sempre attribuito quello di qualche scienziato (e, più raramente, di qualche scienziata).

MA COME MAI ALLORA, quasi vent’anni dopo e alle porte del lancio, Chanda Prescod-Weinstein, Sarah Tuttle, Lucianne Walkowicz e Brian Nord hanno deciso di contestare il nome? E soprattutto, come mai la Nasa sta prendendo in seria considerazione la protesta, tanto da aver aperto una investigazione interna dopo la quale annuncerà se tornare sui propri passi e cambiare il nome del telescopio? Se davvero dovesse accadere, sarebbe una bomba: sarebbe la prima volta a poche settimane dal lancio, con tutte le complicazioni logistiche del caso.
La risposta a questa domanda è che Webb, prima di essere direttore della Nasa, aveva occupato a partire dalla fine degli anni Quaranta, diverse posizioni governative in un periodo in cui le persone Lgbt erano sistematicamente licenziate a causa del loro orientamento sessuale, seguendo lo stesso destino di chi era accusato di comunismo o connivenza con i sovietici. Nel caso delle persone omosessuali la caccia alle streghe si chiama lavander scare, cioè «paura violetta». Ebbene, secondo i quattro astronomi, membri della comunità Lgbtqi+, Webb fu «in parte responsabile dell’implementazione della politica federale del momento: la purga delle persone Lgbt dalla forza lavoro». Webb «fu coinvolto nelle discussioni al Senato che diedero inizio a una serie devastante di politiche federali». Non solo: esistono prove che lui stesso pianificò e partecipò a riunioni durante le quali condivise materiale omofobo e «non esiste prova che abbia mai deciso di levarsi in difesa dell’umanità di chi fosse perseguitato».

GLI ANNI SESSANTA sono anche quelli in cui lavorano alla Nasa Katherine Johnson e le sue colleghe matematiche nere, il cui ruolo fondamentale per il successo delle prime missioni astronautiche, fino a tempi recenti, era stato totalmente ignorato (lo racconta il bellissimo film Il diritto di contare): per andare in bagno dovevano attraversare tutto il campus perché i bagni per neri non erano previsti nella zona dove lavoravano gli ingegneri (bianchi).
«Sentivamo di dover prendere una posizione pubblica rispetto al fatto che fosse battezzato uno strumento così importante col nome di una persona i cui valori erano così discutibili», hanno spiegato a Nature i quattro astronomi protestatari. «È ora che la Nasa si prenda le sue responsabilità e si ponga dal lato giusto della storia».

LA QUESTIONE della discriminazione verso le persone Lgbtq nel mondo della scienza è molto seria. Uno studio del 2020 degli inglesi Institute of Physics, Royal Astronomical Society e Royal Society of Chemistry mostra che ben il 28% delle scienziate e scienziati intervistati (un migliaio fra Lgbt e «alleati», principalmente in campo fisico-chimico) ha preso in considerazione l’opzione di lasciare il mondo della ricerca, contro il 16% di coloro che sono cis-etero. Questo numero arriva al 50% fra gli individui trans. Un terzo aveva assistito a comportamenti discriminatori (il 16% dichiarava di averli vissuti sulla propria pelle), mentre quasi la metà dichiarava che mancava in generale la consapevolezza sulle tematiche e problematiche delle persone Lgbtq sul posto di lavoro. Uno studio molto completo pubblicato quest’anno dalla rivista Science, firmato dai sociologi Erin Cech e Tom Waidzunas, ed effettuato su più di 25mila scienziate e scienziati, documenta una disuguaglianza sistematica dei professionisti Lgbtq nel mondo Stem, l’acronimo che indica le discipline scientifiche (scienza, tecnologia, ingegneria e matematica).
Le persone non eteronormative erano molto più a rischio di diventare vittime di limitazioni di carriera, molestie, marginalizzazione sociale e svalutazione professionale rispetto a colleghi e colleghe etero. A tutto questo si aggiungono frequenti difficoltà di salute (maggiore depressione, insonnia, stress) e una maggiore propensione all’abbandono della carriera. Questi dati sono uniformi in tutte le discipline Stem. Ancora: un altro studio del 2018 mette in evidenza l’esistenza anche per le persone Lgbtq del fenomeno della cosiddetta «leaky pipeline», la tubatura che perde, un’espressione che si utilizza per indicare che quanto più si sale nella gerarchia meno donne si trovano. Ebbene, vale lo stesso per chi non è eterosessuale, accade ma già al livello delle lauree: dopo 4 anni, il 40% di loro gettava la spugna, contro il 26% degli altri. Si stima che le persone Lgbt fra docenti universitari siano sottorappresentate del 20%.

PER QUESTO sono nate associazioni come 500 Queer scientists, che raccoglie più di 1500 storie, role models che aiutano l’attuale generazione a non sentirsi sola e fomentano la creazione di reti di appoggio mutuo, come le reti Pride in Stem nel Regno Unito o Prisma in Spagna. Come scrive l’astronomo fondatore di Pride in Stem, Alfredo Carpineti, il nuovo telescopio «finirà nel vuoto dello spazio, ma non esiste in un vuoto sociale e storico. Il suo nome importa».
La gamma di frequenze in cui osserverà il futuro telescopio spaziale è più amplia di quella di Hubble: quale migliore occasione per ampliare anche il nostro punto di vista e capacità di inclusione. Sulla Terra e nel vuoto dello spazio.