C’è un tocco extra di shock value nello scritturare un ex teen idol del Disney Channel in un ruolo superdark, completamente contro tipo. Harmony Korine aveva giocato abilmente quell’idea in Spring Breakers, e Joe Berlinger alza la posta, affidando all’angelico Zac Efron la parte di uno dei più famosi serial killer della storia, Ted Bundy. La scommessa trascende con grande successo il concetto: Efron è la ragione per cui vale la pena di vedere Ted Bundy, fascino criminale, l’ultimo biopic (ce ne sono cinque o sei, tutti piuttosto banali; più quattro speciali televisivi; almeno sei libri; e Bundy appare anche nella serie di…. ) dedicato allo studente di legge che, tra Oregon, Utah, Colorado, Idaho e Florida, in un arco di tempo che va dal 1974 al 1978, avrebbe ucciso una almeno trentina di donne. Oltre che al numero delle sue vittime, a un paio di fughe rocambolesche, al fatto che in tribunale spesso sceglieva di difendere se stesso e alle numerose testimonianze che ha lasciato (prima di essere giustiziato a quarantadue anni, nel penitenziario di Raiford, in Florida, il 24 gennaio 1989), la popolarità di Bundy, nel frequentatissimo genere «serial killer», è dovuta al fatto che la sua patologia si nascondeva dietro all’aspetto di un bel ragazzo, eloquente, capace di senso dell’umorismo e di essere seducente.

A QUELLE DOTI, di cui è naturalmente provvisto, Efron aggiunge nel film di Berlinger improvvisi squarci di minaccia che si alternano al suo sorriso aperto, una spavalderia attraente e la disarmante capacità di mentire che -mentre accumulava cadaveri uno dopo l’altro- gli permise di condurre, alla luce del sole, un’esistenza socialmente normale. Quella dicotomia è il soggetto di gran parte di Fascino criminale, non a caso adattato dal libro della compagna di Bundy, Liz Kendall (Lily Collins, brava anche lei) che per anni gli visse accanto incapace di credere che fosse un assassino, anche quando era ormai ovvio.

AL SUO PRIMO ESPERIMENTO con la fiction, Berliner dà al film (belle le ricostruzioni d’epoca, nonostante il basso budget) una linearità e un’efficienza poco pretenziosi che, grazie agli attori, riescono ad elevarlo oltre la sfera del telefilm. Ma non oltre il voyeurismo che caratterizza anche la serie documentaria su Bundy che Berliner ha realizzato per Netflix, Conversazioni con un killer: il caso Bundy, basata su una serie di interviste concesse dal serial killer al giornalista Stephen Michaud, nel 1980. Nonostante la ricchezza di materiali d’archivio (spesso montati in modo più discutibile che affascinante, come punti di vista di Bundy o pensieri nella sua mente), la serie di quattro puntate di un’ora è inconcludente, incapace di usare il girato e, in particolare le registrazioni della voce, in modo da andare oltre la superficie dei fatti già noti e a un banale sfruttamento della fascinazione popolare per il personaggio. Molto più interessante, efficace e ossessivo, fu il contributo cinematografico di Berliner a un’altra famosa storia di crimine, quella dell’omicidio di tre bambini avvenuto nel 1993 a West Memphis, in Arkansas. Paradise Lost: The Child Murders at Robin Hood Hills (1966) è il primo di tre documentari (lo seguirono Paradise Lost 2: Revelations (2000) Paradise Lost: Purgatory (2011) che Berliner, insieme a Bruce Sinofsky, dedicò al caso, ma soprattutto a Jessie Misskelley, Damien Echols e Jason Baldwin, i teenager accusati di aver ucciso i bambini durante un rito satanico.

CONVINTI DEL FATTO che i ragazzi erano vittima di un errore giudiziario innescato dalla confessione di uno dei tre fragile di mente e da pregiudizi culturali (erano metallari, marginalizzati a scuola, poco socievoli) Berliner e Sinfosky lavorano per anni alla storia cercando di avanzare le indagini e fare riaprire il caso. Paradossalmente fu un altro documentario a riuscire nell’intento, West of Memphis, di Amy Berg, prodotto da Peter Jackson. Jessie, Damien e Jason vennero infatti rilasciati nel 2011. Il film di fiction tratto dal loro caso, Devil’s Knot – fino a prova contraria, è stato diretto da Atom Egoyan.