Luglio 1960: sono i giorni della rivolta di Genova per impedire il congresso neofascista autorizzato dal governo Tambroni; degli scontri di piazza, e dei morti, di Reggio Emilia, Palermo, Licata, Catania; delle manifestazioni di massa che finalmente costringeranno il governo alle dimissioni. Nella memoria operaia di Taranto di quei fatti non c’è traccia, a differenza di un altro luglio, quello del 1948, quando in seguito all’attentato a Togliatti, gli operai compatti si riversarono nelle strade in un’imponente manifestazione che raggiunse la sede della camera del lavoro, dove le cariche della polizia provocarono la morte di un giovane socialista e di un poliziotto.

LA TARANTO DEL 1960 è una città piegata da oltre un decennio di crisi della sua principale fonte di lavoro, l’industria navalmeccanica, e delle attività collegate; un decennio di licenziamenti che colpiscono soprattutto a sinistra, di lunghe ed estenuanti occupazioni, di manifestazioni che coinvolgono tutta la città. Poi, proprio in quei giorni di luglio inizia la costruzione del nuovo centro della siderurgia pubblica, il più grande di tutti. Ora Taranto uscirà finalmente da «immobilità, abbandono, rassegnazione, miseria». Inizierà un’era di sviluppo e di benessere senza fine. E Taranto non scende in piazza, fa festa.Tutte le forze politiche, e anche la chiesa, hanno fortemente voluto il quarto centro siderurgico a Taranto, nessuno si è preoccupato quando è stato costruito a soli cinque chilometri dalla piazza centrale della città e a poche centinaia di metri dal quartiere Tamburi.
A sessant’anni dalla deliberazione che decretò quella scelta, il libro di Salvatore Romeo L’acciaio in fumo, edito da Donzelli (pp. 298, euro 27), ha il merito di ricostruire con cura meticolosa e con approfondita documentazione archivistica e bibliografica, le vicende economiche e sociali che segnarono la crisi di Taranto nel secondo dopoguerra e portarono a quella scelta che oggi unanimemente definiamo scellerata e che allora pareva la salvezza; segue la fabbrica in tutte le sue trasformazioni – Ilva, Italsider, poi di nuovo Ilva, la privatizzazione, la famiglia Riva – e arriva ai nostri giorni, ad Arcelor-Mittal, ai fatti che tutti conosciamo.

L’acciaio in fumo non usa toni sensazionalistici, iper-abusati dalla cronaca giornalistica e dalla politica truffaldina degli ultimi tempi; pacato ma implacabile ci stende davanti i fatti: racconta di come gli speculatori edili, guidati dall’allora arcivescovo di Taranto, monsignor Motolese, avessero scorto nell’insediamento dell’acciaieria un’opportunità per realizzare un affare; documenta come l’azienda fosse consapevole fin dall’inizio della pericolosità ambientale dell’impianto, quando si era in dubbio fra due diverse località e una fu esclusa perché i venti avrebbero investito la città troppo spesso con i fumi pericolosi; analizza il singolare rapporto fra la città e la fabbrica che da un lato ammazzava, e ne erano consapevoli tutti, ma dall’altro assicurava benessere e investiva in cultura (mai Taranto ha avuto una stagione culturale come quella organizzata dall’Italsider pubblica negli anni Sessanta e Settanta), ed elargiva denaro tanto alle confraternite religiose quanto alle Feste dell’Unità. Un rapporto che diventerà sempre più parassitario da parte dell’azienda, fino a mostrare quest’unico volto quando, con la privatizzazione del 1995, passerà ai Riva.

LA CITTÀ procede di pari passo alle vicende della fabbrica, avvelenandosi e contando, con rabbia montante, i suoi morti. Romeo racconta lo sviluppo urbanistico di Taranto, la speculazione edilizia, i tentativi (naufragati) di darle un vero piano regolatore, la nascita di nuovi quartieri che si volevano funzionali alla nuova realtà industriale, centri direzionali e operai, e che invece non sono mai stati dotati dei servizi ed infrastrutture necessari a renderli luoghi dignitosi di vita.
Il rapporto fra la città e la fabbrica arriva alla rottura definitiva nel 2012 quando l’indagine della magistratura e gli studi epidemiologici mettono sotto gli occhi di tutti il disastro ambientale e sociale prodotto da 50 anni di acciaio. Gli ultimi anni sono di conflitto aperto. Anche questo è documentato nel libro.