Tarantino, «Il mio western oscuro racconta l’America»
Intervista Il regista parla di «The Hateful Eight», nelle sale Usa a Natale, in Italia in febbraio. Musiche di Ennio Morricone, si ispira più a Carpenter che a Leone
Intervista Il regista parla di «The Hateful Eight», nelle sale Usa a Natale, in Italia in febbraio. Musiche di Ennio Morricone, si ispira più a Carpenter che a Leone
Per il suo primo kolossal in 70mm Ultra Panavision (il formato di Ben Hur e Questo pazzo pazzo mondo), Quentin Tarantino ha preferito le bianche montagne del Wyoming ai gialli deserti di Lawrence of Arabia. Una diligenza avanza nella neve. A bordo, «il boia» John Ruth (Kurt Russell) sta portando «la prigioniera» Daisy Domergue (Jennifer Jason Leigh) in città, dove riscuoterà una grossa taglia. Nel tragitto si uniscono a loro il maggiore dell’esercito nordista Marquis Warren (Samuel Jackson che gioca a Lee Van Cleef) e «lo sceriffo» Chris Mannix (Walton Goggins), figlio di un rinnegato sudista. La tempesta di neve incalza e i quattro sono costretti a cercare riparo, a metà tragitto, nell’emporio di Minnie, dove incontrano «il piccoletto» (Tim Roth), «il confederato» (Bruce Dern), «il messicano» (Demian Bichir) e «il pesta vacche» (Michel Madsen).
Mentre, fuori, la bufera impazza come un mostro urlante, il film si trasforma in un rimpiattino mortale, giocato tutto tra le pareti di legno del trading post (alle scenografie è il grande Jack Fisk). Più Agatha Christie che Corbucci o Leone, The Hateful Eight è uno dei film più cerebrali, misurati (anche quando diventa splatter) che Tarantino abbia mai fatto. E una delle più grosse scommesse con se stesso. È anche, come lo era stato Grindhouse, il rilancio di un preciso rituale cinematografico estinto. Uscirà infatti, in 100 sale Usa che possono proiettare il 70 millimetri il giorno di Natale, in una versione roadshow, di tre ore e mezza, dotata di un’overture e di un intervallo e per cui è stato stampato anche un bel programma patinato. Una versione di sette minuti più breve è prevista per le uscite nei multiplex. La conversazione qui sotto è avvenuta durante un incontro stampa a New York.
Il film sembra un «murder mistery» ma invece della casa nella campagna inglese siamo nel West
Una volta «imparati» certi aspetti di un genere – come i combattimenti di arti marziali in Kill Bill o la corsa in macchina in Death Proof – non sento il bisogno di rivisitarli. Nel caso del western, non mi sembrava di aver detto tutto. Il problema della razza in America era il tema centrale di Django Unchained. Qui potevo essere più libero, senza dovermi preoccupare della storia con la «s» maiuscola. E poi, per essere considerato un vero regista di western, nella categoria di Budd Boetticher o Anthony Mann, di western uno deve farne almeno tre. Qui il mio riferimento erano i western televisivi anni sessanta, serie come The Virginian o Bonanza di cui mi piacevano in particolare gli episodi incentrati su guest star «importanti», come James Coburn o Vic Morrow, che diventavano i veri protagonisti della puntata – sconosciuti «con un passato», che arrivano in paese da chissà dove, e di cui si scopre se sono buoni o cattivi solo alla fine. Cosa sarebbe successo se avessi chiuso otto personaggi così in una stanza? Aggiungere l’elemento mistery a quella premessa mi è parso interessante. I mistery mi piacciono e la storia si prestava – la prima parte ambientata nella diligenza e poi l’arrivo all’emporio di Minnie dove incontriamo gli altri quattro personaggi di cui non si sa nulla. Volevo che la loro identità rimanesse oscura sia ai passeggeri della diligenza che al pubblico, rivelarla poco a poco. Quando ho dato a Samuel Jackson la prima stesura del copione, gli ho chiesto cosa gli piaceva di più . Mi ha risposto: «Quando inizio a capire che cazzo sta succedendo». Questo film ha molte similitudini con Le iene (Reservoir Dogs). Una delle ragioni per cui – l’ho scoperto solo dopo – Le iene funziona così bene, è la suspense. La suspense è come un elastico: continui a tirarla, per cinque, sei minuti … Per me, se posso tirare quell’elastico fino a venticinque minuti e non si spezza, è ancora meglio! Parte dell’elastico, in The Hateful Eight, è la minaccia della violenza che incombe su tutto. Non sai cosa succederà; non sai chi, quando o cosa, ma sai che succederà. E che sarà orribile. Il film è una scommessa su quel meccanismo.
In Francia hanno definito «The Hateful Eight» il tuo primo horror. Sei d’accordo?
Inizialmente ero sorpreso. Ma, in effetti, più che da altri western, questo film è stato influenzato da La cosa di John Carpenter, che non a caso è interpretato da Kurt Russell e ha la colonna sonora di Ennio Morricone. Anche Le iene era stato influenzato da La cosa. Ricordo l’effetto che mi fece la prima volta che vidi il film di Carpenter: la paranoia tra i personaggi intrappolati nella base era così forte che rimbalzava sui muri. Fino a quando, non avendo più un posto dove scaricarsi, si è riversata sul pubblico in sala. Quello era l’effetto che volevo ottenere con The Hateful Eight. Infatti Ennio non ha scritto una colonna sonora da spaghetti western, ma da horror, a tratti persino da giallo. E ci sono degli elementi del giallo, come il killer con i guanti neri.
Come «Django», è anche un film politicamente molto esplicito.
Non so se sia stata una scelta conscia. Ricordo di essermene accorto scrivendo quella che io chiamo – eufemisticamente parlando – la discussione politica tra «lo sceriffo» Chris Mannix e il maggiore Marquis Warren, interpretato da Samuel Jackson. Ero alle prese con un red state/blue state western, una contrapposizione come quella che stiamo attraversando oggi, tra l’America reazionaria/razzista e quella democratica/multirazziale! D’altra parte i western riflettono sempre le decadi in cui sono stati realizzati. Negli anni ’50, con Eisenhower, trasmettevano l’idea dell’eccezionalismo americano e della prosperità. Negli anni sessanta/settanta, vi si leggeva il clima cinico generato dal Vietnam e da Watergate. Posse, di Kirk Douglas con Bruce Dern è un western da Watergate. Trovavo quindi positivo che The Hateful Eight fosse connesso con lo Zeitgeist. Certo, dopo che abbiamo cominciato a girare, gli eventi dell’ultimo anno e mezzo hanno reso quello che stavamo facendo molto più rilevante rispetto alla realtà che ci circonda di quanto potevamo immaginare.
https://youtu.be/MZVJXOTFEzM
Sei preoccupato per il boicottaggio del film istigato dal sindacato della polizia di New York dopo le tue dichiarazioni in appoggio di Black Lives Matter?
Credo che si possa condannare la brutalità della polizia e allo stesso tempo riconoscere che fa un buon lavoro su molti fronti. Penso di avere chiarito la mia posizione e, se necessario, lo farò di nuovo. So che molti poliziotti sono fan del mio lavoro e spero che non si affidino alle dichiarazioni del presidente del sindacato Patrick Lynch per interpretare quello che ho detto. Basta ascoltare le mie parole per capire che le mie osservazioni vengono da un punto di vista costruttivo. Vedremo, comunque, quando esce il film.
Il 70 millimetri è un formato magnifico, specialmente per i paesaggi e gli esterni. Come funziona quando il set è una stanza?
La definizione che ti dà il 70mm aiuta anche in una situazione al chiuso, in cui devi sempre sapere dove è un altro personaggio: avere davanti tutti gli elementi della scacchiera. Il direttore delle fotografia Bob Richardson illumina tutto bene, e mi piacciono molto le sue composizioni dell’inquadratura. L’unica difficoltà è che il tipo di obbiettivi che abbiamo usato non poteva includere uno zoom, a cui mi sono abituato. Lo stesso vale per la steadycam che abbiamo dovuto sostituire con una gru.
Come hai lavorato con Morricone?
Avevamo già collaborato un po’ su Django e Bastardi senza gloria, ma qui era diverso. Per la prima volta, con The Hateful Eight, ho sentito il bisogno di una colonna sonora originale che si adattasse alla personalità del film. Così ho tradotto il copione e l’ho mandata a Ennio. È piaciuto particolarmente a sua moglie. Quando ci siamo incontrati a Roma, mi ha detto che immaginava un tema «in movimento», come la diligenza, in cui si sentiva la minaccia della violenza a venire. All’inizio doveva scrivere solo quel tema. Ma sette minuti sono diventati dodici poi ventidue… Ha preparato la colonna sonora partendo dal copione, senza avere visto il film. Mi ha dato dei pezzi di musica che secondo lui funzionavano per i materiale ma che non erano pensati per scene precise. Così ero libero di usarli. È stata una collaborazione molto piacevole. Per il futuro, credo che gli chiederò di scrivere le musiche prima ancora di girare il film, così posso tenerne conto durante le riprese.
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