Berlino continua a «tanzen», ballare, sulla scena mediatica dell’espatrio come necessario, inevitabile, che l’ha ormai consacrata come meta del possibile che diventa seduzione. Ma dove finisce la percezione e subentra la realtà? Il mito della città come spazio vuoto, terra di nessuno e di conseguente conquista è stato nel corso degli anni Duemila marketizzato con successo.

Questa accezione di spazio si è declinata soprattutto nella geografia del clubbing, dove luoghi dismessi o post industriali sono stati riassorbiti nella produzione culturale e dell’entertainment berlinese. Il clubbing come strumento di analisi sulla Berlino di oggi è la traccia madre del libro Tanz Berlin. Oltre il muro del clubbing (manifestolibri) di Francesco Macarone Palmieri, antropologo sociale, dottorando in urbanistica nonché dj e produttore di Gegen, un evento bimestrale di cultura queer nella capitale tedesca.

Il testo è allo stesso tempo autobiografico, narrativo e arricchito dal lavoro fotografico di Aghia Sophie. Alle spalle del clubbing, o meglio, nei suoi corridoi, c’è il nuovo modello di metropoli transnazionale che – oltre il puro cosmopolitismo e sulla scia di concetti come «migrazione creativa» – prevede una fruizione multipla e simultanea delle metropoli: vivo qui, ma non sempre, seguendo i miei desideri e bisogni, sono quindi solo «based in».

L’antropologo svedese Ulf Hannerz considera il mondo globalizzato un frutto dialettico tra locale e globale che nelle città prevede una contaminazione e rielaborazione. Nel microcosmo berlinese la velocità dei suoi cambiamenti, anche di fruizione culturale, produce gentrificazione (interi quartieri finiti nelle sue spire: Prenzlauer Berg, Mitte, Friedrichshain, Kreuzberg e negli ultimi anni anche la parte nord di Neukölln) ma anche sperimentazione di linguaggi e identità, una indubbia fucina sociale che mescola, però perversamente due immaginari: quello della Berlino storicamente povera e del possibile che diventa desiderabile.

Insomma il suo motto/brand indiscusso: «povera e sexy», coniato dall’ex sindaco Wowereit, il marchio che ha sedotto ingenti flussi migratori. Un messaggio potentissimo, forse il più potente degli ultimi anni centrato sull’idea di meta d’espatrio e come tutti i messaggi pubblicitari mirato solo a vendere.

Berlino si vende sussurandoti che qui puoi anche non essere competitivo, anche non essere bravo, finalmente un po’ mediocre e, ciliegina sulla torta, forse anche non lavorare. Una filosofia di vita rispettabile, ma è concretamente possibile realizzarla comunque in uno dei cuori pulsanti dell’Europa occidentale? In uno stato che ha un peso rilevante nelle scelte finanziarie di un intero continente?

Chi pensa di sì, senza progettualità, paga il prezzo a un capitalismo altrettanto brutale ma, a differenza di altre metropoli, non dichiarato onestamente. Francesco Macarone Palmieri nel suo libro è molto chiaro sul clubbing come costola economica della città: «L’economia funziona quando c’è una scena, e la scena c’è se si mettono in moto quei meccanismi antropologici di convergenza tra identità individuali e lifestyle del party.

In questo senso, l’evento che produce una scena vivrà di rendita». Il totemico club Berghain ha assunto la fama di un’attrazione turistica. La sua vestale è il leggendario Sven Marquardt, capo del servizio d’ordine, sul cui potere decisionale su chi entra e chi no, gravitano le più assurde leggende metropolitane e il club stesso è una metafora di Berlino. I riferimenti spazio temporali saltano, le feste durano interi weekend no stop.

Per chi entra le tutele sono garantite ma le regole da seguire, altrettanto: vietati i flyer di altre feste, foto o riprese video e per i musicisti che lì si dovranno esibire vige il divieto di suonare in città per un lungo periodo precedente. Paradossalmente il divieto di entrata può essere esteso all’ultimo dei loser come a Beyoncé, ridefinendosi di nuovo come topos democratico. Il club accoglie etichette non solo di stampo dance ma esplora sonorità d’avanguardia, ospitando anche eventi che giungono fino al balletto. Non è l’unico caso berlinese: molti spazi si mostrano a più direzioni. Tutto questo porta alla creazione di Berlino come «format» riproducibile.

Due imprenditori inglesi vogliono ricreare un Berghain sul Tamigi in un forte militare attraverso il crowdfunding. Alcuni club di New York stanno importando il Mate, una bevanda a base di caffeina e inseparabile da un certo «berlin lifestyle». In Cina vogliono riprodurre lo storico club Bar 25, celebrato anche da un omonimo documentario, in vita dal 2004 al 2010 e vero spazio multiforme comprensivo di circo e centro wellness.

Un parco gioco per adulti, altalene e strobi ammaccati appesi agli alberi, naturalmente libero uso di droghe. Lo stesso club è stato anche una delle location per il film Berlin Calling di Hannes Stöhr del 2009 che rappresenta il sogno berlinese del «finalmente possibile» che da lì a poco sta per deflagrare.

I processi di migrazione, il valore della cultura della differenza non li porta di peso certo il dj Ikarus del film sopraccitato; Berlino è sempre stata consapevole della ricchezza delle politiche sull’orientamento sessuale così come possiamo parlare di una Berlino ricostruita dai gastarbeiter del dopoguerra, delle contestazioni dell’Ovest e dei passaggi est/ovest a ridosso della caduta del muro. Il senso del diritto è capillare ma lo stato di diritto stesso è usato come magnete per attirare intere generazioni (e non a fondo perduto) che specularmente si riproduce nel network del clubbing.

La stessa «omonormatività», ossia l’omosessualità non come «eccezione», diventa dominante nella scena berlinese. Gegen, l’evento organizzato da Francesco Macarone Palmieri nel club Kit Kat si definisce in modo antitetico a questo. «Gegen» in tedesco significa contro ma anche intorno, oltre la zona «safe space» di una specifica comunità bensí spazio aperto.

Il progetto si allinea al concept del Kit Kat unico club che stila un manifesto di liberazione sessuale definendosi volutamente eccessivo nel design per sollecitare i presenti a non nascondersi al buio. Quale sarà il destino di Berlino? Per forza di storia avrà sempre più fame di privatizzazione, squali immobiliari, omogenizzazione che adesso cerca di nascondere in una mano dietro la schiena oppure continuerà a giocare in questo eterno e perfido marketing del «povera ma sexy»?

La seconda opzione pare troppo ghiotta per rinunciarci. Chi glielo fa fare di fermare la giostra? Nell’ultima parte del testo l’autore presenta un racconto che ha per protagonista la figura del nuovo migrante schiavo delle scene, intrappolato in un lifestyle che non riesce a gestire; sbranato dalla cuccagna, ridefinito un «social bottom» in un grande facebook, la sua storia avrà un esito tragico. Come su ogni palcoscenico che si rispetti.