Il governo britannico non manderà alcun suo rappresentante alle olimpiadi invernali di Pechino, che si terranno dal quattro al venti febbraio 2022 nella capitale cinese. Lo ha reso noto in aula ieri il leader della Camera dei comuni Jacob Rees-Mogg.

«Non è stato comprato alcun biglietto», ha assicurato laconicamente Rees-Mogg, euroscettico della prima ora e tra i capofila pro-Brexit della maggioranza dei conservatori rispondendo al collega di partito Iain Duncan Smith. Attuale co-presidente e fondatore dell’Ipac (Inter-Parliamentary Alliance on China) una rete internazionale di politici soprattutto di centrodestra non immuni da una certa sinofobia, Duncan Smith aveva appena veementemente denunciato il «dispotico» regime cinese per le sue nefandezze vecchie (Tibet, Hong Kong, Taiwan, la persecuzione degli liguri) come quelle più recenti, nella fattispecie il caso della tennista Peng Shuai, scomparsa dalla circolazione non solo digitale dopo aver denunciato episodi di molestie subite dall’ex vice premier Zhang Gaoli.

In questa nuova guerra fredda contro il colosso asiatico hanno naturalmente preminenza figure di grande destrezza politica nell’altro senso, come Marco Rubio, Mike Pompeo o Mitt Romney. È stato proprio Romney, repubblicano senatore dello Utah, a richiedere per primo lo scorso marzo un «boicottaggio economico e diplomatico» di Pechino 2022, il che significa, appunto, nessuno spettatore o rappresentante politico statunitense ad assistere ai Giochi.

Due mesi dopo gli si è aggregata la speaker democratica Nancy Pelosi. Nessuno si avventura oltre, naturalmente: boicottare del tutto, cioè non mandare i propri atleti, come fecero gli Usa alle olimpiadi moscovite nel 1980, oltre a valere la squalifica dal Cio per un biennio si tradurrebbe nella perdita di uno sfracello di denaro in contratti sponsorizzazioni ecc. che, soprattutto d’inverno, scalda i cuori più dei diritti umani e della fiaccola olimpica messi assieme.

Più cauta dunque l’amministrazione Biden, che allo scorso 18 novembre stava ancora «considerando» il boicottaggio diplomatico. L’Australia potrebbe accodarsi alla Gran Bretagna per ovvie ragioni (geo)politiche vista anche la prossimità territoriale con la Cina, mentre un’analoga mozione nel parlamento olandese non è passata. Dal canto suo, Pechino «si oppone fermamente alla politicizzazione dello sport». La piccata replica del portavoce degli Esteri cinese Zhao Lijian ha diffidato Australia e Olanda dal rilasciare «dichiarazioni irresponsabili» sulle Olimpiadi.

Che sono un’assurdità in sé anche per altri motivi: i costi folli, la catastrofe ambientale di organizzare una cosa simile in un posto (Pechino) dove di neve non ce n’è (dovrà esservi trasportata con un dispendio energetico delirante). Ma alla Cina, notoriamente priva di soft-power così come di alleati internazionali, per deviare gli sguardi dalle proprie «faccende interne» il cosiddetto sportwashing è l’unica arma a disposizione.