«Anche noi siamo uomini, vogliamo diritti umani, accesso al lavoro, all’istruzione… asilo politico». Era lo scorso dicembre e loro li sentivi ancora ottimisti, malgrado il gelo e la durezza dello sciopero della fame. Parliamo del gruppo di richiedenti asilo, a maggioranza pakistani, che per oltre due mesi si era rifugiato in una chiesa di Vienna, la neogotica Votivkirche, dopo lo sgombero del refugee protest camp allestito nel parco adiacente. Intorno a loro si era creata una forte mobilitazione di società civile, concerti, dibattiti e attenzione mediatica.

Sorda la ministra degli interni Johanna Mikl-Leitner, popolare (Oevp), alleata di governo dei socialdemocratici (Spoe) del cancelliere Werner Faymann. Così, cinque mesi dopo la speranza è svanita. All’orizzonte nessuna soluzione, solo il rischio concreto di espulsione. Sei di loro sono già stati espulsi, in Ungheria, paese nel quale erano transitati.

Al primo paese di ingresso nell’Ue compete, secondo la Convenzione Dublino 2, la domanda d’asilo. Scegliere il paese in cui stare non è possibile. Possiamo immaginare come siano stati accolti nell’Ungheria di Orban: manette, immediata reclusione, guinzaglio per le uscite fuori dal campo di raccolta (i Cie italiani)… un inferno, come testimoniano il più recente rapporto sull’Ungheria di Pro Asyl e sentenze di tribunali austriaci che infatti hanno vietato le espulsioni. Altri 25, con la domanda d’asilo già due volte negata, rischiano l’espulsione in Pakistan. Opzione che sembrava lontana, anche per la mancanza di accordi specifici tra i due paesi. Invece la novità è che le autorità austriache stanno appunto cercando di definire accordi di espulsione col governo del Pakistan.

La protesta dei profughi, per la prima volta autoorganizzata in Austria è iniziata il 24 novembre con una marcia di protesta di 35 chilometri da Traiskirchen, centro di prima accoglienza – sovraffolato e carente persino di cibo – a Vienna. Movimenti simili che si sono coordinati tra loro, esprimendo una nuova domanda e soggettività politica dei «Non Citizens» (firmandosi così sono scesi in piazza a Monaco) sono sorti anche in Germania, dove una marcia di profughi ha percorso 500 chilometri da Wuerzburg a Berlino, in Olanda e Ungheria .

A inizio marzo, dopo lunghe discussioni il refugee protest camp ha accettato volontariamente di lasciare la chiesa, una trincea di lotta che garantiva grande visibilità. Era necessario perché il clima era diventato pesante, tra l’irruzione di un gruppo di estrema destra e la polizia sempre in agguato intorno alla chiesa in attesa di acciuffare qualche rifugiato che usciva per non sentirsi prigioniero, o per farsi la doccia nella vicina università.

Visitiamo i rifugiati sistemati adesso nel Servitenkloster, un convento abbandonato adiacente all’omonima chiesa, nel centro della città. È confortante il viavai di giovani che portano solidarietà, ma non cambia la realtà. «Ci hanno abbandonati – racconta Khan Adalat, 48 anni, il più anziano dei 63 uomini presenti – aspettano solo che non ne possiamo più, perdendo ogni energia per lottare». Il cardinale di Vienna garantiva tutela, il presidente della Repubblica interessamento. Il ministero degli Interni aveva promesso consulenza giuridica e un riesame attento delle singole cause. Invece sono arrivati dei funzionari che hanno offerto 7000 euro a chi accettava il ritorno volontario in Pakistan.

[do action=”quote” autore=”Mohammad Numan, 25 anni”]«Evidentemente si dà asilo solo ai carnefici, non alle vittime»[/do]

«Non possiamo tornare, siamo fuggiti dagli attacchi talebani, chi non aderisce viene ucciso» spiega Adalat. Anche la sua domanda d’asilo è stata respinta, del ricorso non ha avuto ancora risposta. Fuggendo dal Pakistan ha passato 8 anni in Grecia vivendo per strada. «Sono laico, mi sento internazionale e non posso stare in nessun posto nel mondo, non è assurdo?». Mohammad Numan, 25 anni, è furioso: «Evidentemente si dà asilo solo ai carnefici, non alle vittime» dice. È tra i 25 con due risposte negative alla richiesta d’asilo: «Non dormiamo più la notte, abbiamo paura che arrivi la polizia per portarci via». Il «diritto di avere diritti», come recita la bella canzone composta per il refugee protest camp dal rapper viennese A.geh Wirklich, è solo un sogno.