Tangerinn, il primo romanzo di Emanuela Anechoum (e/o, pp. 256, euro 18, un esordio di cui hanno acquistato i diritti già in Francia, Germania e America) risponde all’esigenza che spesso anima gli esordi, quella della ricerca dell’identità, quindi del racconto di formazione o del divenire, secondo la categoria critica proposta dalla Società italiana delle letterate. Lo fa, però, con una profondità e una bellezza della prosa davvero rare.

Nel libro Mina, la voce narrante, si rivolge a suo padre, dopo che lui muore di colpo di infarto nel paesino del sud Italia in cui vive con Aisha, l’altra figlia, la moglie Berta e la suocera. Anechoum non usa mai la parola Calabria, ma a un certo punto, mentre a lei e sua sorella viene chiesto il pizzo, lo stesso uomo a cui consegnano la busta coi soldi suggerisce alle due di iniziare a fare «paninu cu satizzu», un piatto tipico della zona di Reggio Calabria, dove l’autrice è nata.

LA RICERCA DELL’IDENTITÀ che guida questo romanzo è plurima, perché prima di tutto Mina cerca di capire chi fosse suo padre, nato nel sud del Marocco e arrivato in Europa in un modo e in un tempo di cui la sua famiglia non conosce i dettagli. Del resto tutte le storie che Omar ha raccontato alle sue figlie si situano in quello spazio fra la leggenda e la realtà, dove in misura più o meno varia stanno tutti i ricordi. Nel libro, diviso in quattro parti, Mina racconta anche la presunta infanzia e giovinezza di Omar, le mani di sua nonna «jidda» che lei non ha mai visto e che desidera descrivere due volte, il rapporto con il fratello minore Idris, la gravidanza della sorella Zahra. Poi, c’è la ricerca identitaria, la fuga da se stessa che l’ha condotta ad andarsene da casa per trasferirsi a Londra, dove diventa l’assistente del manager in un negozio di una catena alimentare e dove, soprattutto, vive immersa in una relazione di sudditanza con Liz, una ragazza britannica, bella, magra, convinta di detenere la verità sul femminismo, sulla giustizia razziale, economica, ecologica…

ANECHOUM nel raccontare il ritorno a casa per il funerale del padre, che avverrà vario tempo dopo la sua morte, attraverso l’intreccio di storie e figure memorabili come la nonna materna, non solo mette in evidenza l’idiozia di Liz nelle cui sfaccettature si può leggere la menzogna dell’Europa benpensante, ma mostra che essere adeguati alla tragedia altrui è quasi impossibile. Rispetto al privilegio che Mina incarna in confronto a Mahdi, arrivato profugo sulle coste italiane, Anechoum confessa che «la vergogna che sentivo era giusta».

La ricerca di sé, di un futuro migliore, la fuga da un passato che non può essere riparato: «un’adolescente spezzata non si aggiusta mai» è un’illusione in cui possono incappare tutti gli esseri umani, almeno quelli in cui alberga una pulsione insaziabile di diventare o di avere, perché non riescono a essere. Anch’essa, però, è influenzata dal luogo in cui si nasce, dalla classe sociale a cui si appartiene, dal colore della pelle. Per questo, per alcune e alcuni, trovare se stessi e sopravvivere sono due azioni che coincidono, solo che per riuscire nella seconda bisogna partire e abbandonare ciò che si è, con l’inevitabile conseguenza che «gli appartenenti a una minoranza non hanno il lusso di essere se stessi: quando si confrontano con il potere incarnano la loro diversità».

C’è però una forma di livella, direbbe Totò, nella stratificazione di ingiustizie e dolori insanabili che narra Anechoum con notevole grazia: si tratta della possibilità di amare ed essere amati, che in questo romanzo emerge non come una banalità bensì in quanto consapevolezza spirituale.