Una civiltà si forma lentamente, nel corso di secoli, mentre a distruggerla basta una guerra. E non si tratta solo dei monumenti, ma di idee, sentimenti, comportamenti normali in tempo di pace, ridotti ad ammassi di macerie come i loro simboli materiali. È la situazione in cui ci troviamo a determinare il nostro essere uomini? Tadeusz Borowski ne è convinto quando, nel 1948, pubblica Il mondo di pietra (traduzione e cura di Roberto M. Polce, Lindau, pp. 108 € 14,00) dopo aver sperimentato di persona il crollo della civiltà nella Varsavia occupata dai nazisti e poi ad Auschwitz. L’uomo «lagerizzato», narratore e protagonista dei suoi racconti, è il portato di quella esperienza.

La raccolta contiene pagine che si imprimono a fuoco nella memoria, come quelle naturalistiche della «Cena», o quelle ciniche dell’«Uomo con il pacco»: un ebreo astuto, parte del sistema, si ammala e viene mandato al gas, dove va col suo pacco di oggetti personali; «avrebbe potuto mostrare un po’ più di giudizio», commenta il narratore che lo osserva dalla finestra, intendendo non che poteva stare attento a non ammalarsi, ma che poteva regalare a qualcuno il pacco sapendo di andare a morire; e commentando la scena successiva – dove gli ebrei, ammassati sull’autocarro, piangono e imprecano tenendosi per mano per non essere sbalzati fuori – dice di non sapere come mai nel lager si fosse poi raccontato che erano andati al gas intonando un commovente canto in ebraico. Il mondo di pietra viene dopo Addio a Maria (in italiano con il titolo Paesaggio dopo la battaglia, Lindau), raccolta in cui la qualità letteraria è inversamente proporzionale ai valori presenti tra quelle pagine.

Non c’è umanità nei racconti di Borowski, il cui stile mimetico non prevede distacco da ciò che racconta; non può esserci perché l’uomo rinchiuso in un lager ha interiorizzato il sistema concentrazionario: non si ribella, né solidarizza. Vittime e carnefici ragionano e si comportano nello stesso modo, non si distinguono in buoni e cattivi, ma solo in forti e deboli, astuti e stolti. I primi sopravvivono, i secondi periscono.

I racconti di Addio a Maria, usciti in parte già nel 1946, rivelarono il talento di Borowski, ma lo esposero anche all’accusa di «nichilismo morale». Il fatto che il protagonista portasse il suo stesso nome induceva ad attribuire all’autore i pensieri e i comportamenti del personaggio, astuto e cinico. Nella prefazione al Mondo di pietra Borowski rivendicherà la differenza fra diario e racconto, dove ciò che è scritto in prima persona, sebbene ispirato all’esperienza dell’autore, non implica un patto autobiografico con il lettore. A ben vedere, spetterebbe alla raccolta Il mondo di pietra intitolarsi Paesaggio dopo la battaglia, perché unisce il tempo della distruzione al dopo: i primi racconti sono ancora ambientati nel lager, i successivi in uno spazio-tempo posteriore. Ma ciò che resta dopo la guerra, dopo il lager, è anch’esso un mondo di pietra.

La civiltà è fragile, osservava Czesław Miłosz leggendo i racconti di Borowski, basta un improvviso cambiamento delle condizioni di vita perché l’umanità torni allo stato selvaggio primitivo.

Fu proprio dopo aver letto Borowski, e in opposizione al principio relativistico secondo cui l’uomo non può essere giudicato per ciò che di inumano ha compiuto in condizioni inumane, che Gustaw Herling decise di stendere la sua testimonianza sui lager sovietici: nel finale di Un mondo a parte, la parola di comprensione che l’autore rifiuta al vecchio compagno di prigionia quando gli confida di aver mandato a morire quattro uomini per salvare la propria vita è un manifesto anti-borowskiano. Borowski nichilista e Herling umanista?

Le etichette hanno il pregio della sintesi e il difetto della semplificazione. Borowski guarda il volto di Medusa direttamente e ne resta pietrificato; Herling guarda lo stesso volto riflesso nello scudo della civiltà, come Perseo. E chi può essere certo, in condizioni estreme, di conservare la propria umanità? I racconti di Borowski sono un monito. Forniscono elementi a quello «studio pacato su alcuni aspetti del genere umano» che Primo Levi auspicava scrivendo Se questo è un uomo.