Una domanda: «Riesci a immaginare?», ricorre con insistenza nel manoscritto che il protagonista di La notte della felicità, ultimo lavoro dello scrittore indoinglese Tabish Khair (traduzione di Adalinda Gasparini, Tunué, pp. 121, € 14.50) nasconde in una stanza d’albergo, per la lettura di qualche sconosciuto di passaggio.

Racconto lungo più che romanzo, questo libro di Khair ruota intorno al rapporto tra visibile e invisibile, ciò che l’occhio vede e ciò che vedrebbe se la materialità del quotidiano non ne avesse atrofizzato la capacità immaginativa. L’espediente di rivolgersi a un «tu» sconosciuto, e i riferimenti (peraltro solo accennati) al fondamentalismo islamico possono riportare alla mente, per restare nella letteratura dell’Asia meridionale, Il fondamentalista riluttante di Mohsin Hamid.

Tuttavia, il rimando privilegiato da Khair sembra essere ai racconti di fantasmi di Henry James, storie come Gli amici degli amici, di fronte alle quali il lettore è costretto a ipotizzare apparizioni spettrali per giustificare eventi altrimenti incomprensibili, che l’autore riferisce senza fornirne alcuna spiegazione. Siamo nell’ambito che Calvino definisce «fantastico quotidiano»: in un mondo reale, nel quale non è difficile identificarsi, si verifica un evento inatteso, inspiegabile razionalmente, che crea inquietudine, scardinando gli equilibri della normalità. In questo caso, è l’offerta di un dolce inesistente ammannito alla voce narrante, quella di un imprenditore indù di successo, dal suo dipendente più fidato, musulmano, durante una notte di festa islamica.

A nulla vale cercare di comprendere il fatto illogico attraverso parametri logici: l’uomo che magnifica l’aroma e il sapore di un piatto vuoto e invita a consumare un dessert che non c’è, non può se non apparire folle al suo datore di lavoro che, perciò, ne considera il licenziamento. Non prima, però, di avere affidato a un detective l’indagine sul suo passato.

La ricerca dell’investigatore porta solo a una serie di dati che, pur facendo luce sulla vita dell’impiegato, non riescono a giustificare il suo comportamento irrazionale: un’insania – agli occhi del mondo – che, molti mesi dopo il licenziamento del dipendente, finirà per contagiare anche il narratore, condannato (come sempre accade nel fantastico) per liberarsi dall’ossessione dell’accaduto, a raccontare (pena la follia) una storia irraccontabile (e quindi folle, una volta espressa in parole). Proprio nel particolare uso di questo dispositivo canonico della letteratura fantastica risiede l’originalità del racconto di Khair: al contrario di quanto accade nel fantastico tradizionale, al narratore non basta raccontare la sua storia a un estraneo, al modo del Vecchio Marinaio di Coleridge. Deve scriverla e affidare solo al caso la scelta di chi la leggerà: qualcuno che la troverà nel più anonimo dei non luoghi, un albergo a cinque stelle, in un cassetto, insieme a una Bibbia e una Bhagavad Gita.
Enfatizzando con ciò la componente metanarrativa del fantastico, Khair al tempo stesso offre al lettore il suo atto di fede sul potere della parola scritta.