Personaggio complesso e affascinante, accolto da intellettuali e scrittori, fra cui Toni Morrison, come la nuova autorità sui temi razziali nella società statunitense e come l’erede del James Baldwin di La prossima volta, il fuoco, Ta Nehisi Coates è considerato, negli Stati Uniti come in Europa, il vero teorico del movimento Black Lives Matter. Editorialista dell’Atlantic, si era imposto all’attenzione dei lettori americani con il breve, intensissimo Tra me e il mondo, un memoir sotto forma di epistola al figlio quindicenne nel quale raccontava la propria infanzia in una Baltimora infestata dalla violenza delle gang afroamericane come della polizia. Nelle pagine più urticanti di questo testo, Coates mostrava la capacità di coniugare la forza dell’impegno politico e sociale con un talento narrativo fuori dal comune, che si sarebbero poi imposti nei titoli successivi: Una tentazione meravigliosa, il suo secondo memoir, dedicato al rapporto con il padre Paul Coates, veterano del Vietnam ed ex membro delle Pantere Nere, e Otto anni al potere: una tragedia americana, ritratto trascinante e problematico dei due mandati di Barak Obama alla Casa Bianca.

Ora Coates (che ha firmato anche, per la Marvel, la serie di graphic novel Black Panther) è passato alla narrativa, pubblicando nel settembre dello scorso anno il suo primo romanzo, The Water Dancer, accolto con entusiasmo tanto dalla critica quanto dai lettori.

Whitehead, Betty, Ward
Best seller del New York Times, scelto da Oprah Winfrey per il suo Book Club e incluso tra i migliori libri dell’anno da molte delle maggiori testate americane, da Time al Washington Post, Il danzatore dell’acqua (Einaudi, pp. 394, € 21,00) arriva ora in Italia, nell’impeccabile traduzione di Norman Gobetti, e va a consolidare quella che negli ultimi anni è stata una vera e propria nuova primavera della letteratura afroamericana, con i due Pulitzer assegnati nel giro di pochi anni a Colson Whitehead, per La ferrovia sotterranea e per I ragazzi della Nichel, il Man Booker Prize vinto da Paul Beatty per Lo schiavista e i due National Book Award conquistati da Jesmyn Ward con Salvare le ossa e Canta, spirito, canta.

Il romanzo cui viene più naturale accostare Il danzatore dell’acqua, almeno quanto ai temi, è senza ombra di dubbio La ferrovia sotterranea: comune l’ambientazione storica – il Sud ottocentesco, in questo caso la Virginia –, comune il focus sulla schiavitù e sul difficile cammino verso una libertà che forse non si è mai compiutamente realizzata, comune il riferimento alla Ferrovia, ossia a quella vera e propria organizzazione segreta – creata da alcuni abolizionisti bianchi – che si proponeva di favorire e assistere la fuga degli schiavi dalle piantagioni e verso il Nord, nonché il loro inserimento da uomini liberi in una società spesso urbana. Se Whitehead sceglieva però – con una virata fantascientifica e distopica – di trasformare la Underground Railroad in una vera e propria ferrovia, un mondo ctònio attraversato da ondate endemiche di violenza, Coates privilegia invece l’autenticità storica e il rigore del lavoro sulle fonti: la prima di cui si serve è The Underground Railroad Records, in cui William Still raccolse molte storie di ex schiavi e della loro fuga verso la libertà. Non meno presente, come modello, l’Autobiografia di Frederick Douglass, nella quale molti hanno visto l’atto di fondazione della letteratura afroamericana.

Più in particolare, diversi tra i dati caratteriali di Douglass costituiscono la base sulla quale è stato costruito il protagonista del Danzatore dell’acqua: figlio di una schiava e del suo padrone bianco, Hiram Walker è un prodigio di memoria e di intelligenza, irresistibilmente attratto dai libri e attento osservatore della vita nella piantagione di tabacco di Lockless, in Virginia. Cresciuto in mezzo agli schiavi senza alcun ricordo della madre, venduta quando era poco più di un neonato, le sue doti non sfuggono al padre-padrone, che lo strappa alla sua comunità e gli assegna il compito di valletto del fratellastro Maynard. Finché una sera, tornando alla piantagione, Hiram precipita con il suo calesse in un fiume, e l’incidente fa sì che scopra un talento soprannaturale nello spostare se stesso e chiunque si trovi in sua compagnia da un luogo all’altro.

Quanto questo talento particolare, che gli ha risparmiato la morte per annegamento, risulti prezioso per la Ferrovia Sotterranea è facilmente intuibile: per Hiram si apre così un viaggio dalla schiavitù alla libertà, o forse dalla schiavitù a un’altra schiavitù, che consiste nell’imparare – con l’aiuto di Mosè, una donna dai poteri magici – a padroneggiare il proprio dono, per piegarlo a una causa collettiva.
Il merito che va intanto riconosciuto a Il Danzatore dell’acqua sta nel suo essere assolutamente alieno da intellettualismi precostituiti, mentre è sorretto da una trama solida, spesso convincente.

Non priva di finezze e tuttavia senza compiacimenti, la scrittura è nitida, e il panorama dei personaggi che ruotano attorno al protagonista complesso, quasi sempre pluridimensionale. La qualità della ricostruzione storica risulta impeccabile, specie nelle parti in cui lo sguardo di Hiram bambino si sofferma sul «grande baratro che separava la Qualità dalla Servitù», ossia il mondo dei padroni da quello degli schiavi. Un baratro che ha sicuramente a che fare con la ricchezza, appannaggio dei bianchi, e il lavoro quotidiano dei neri, ma che si sostanzia soprattutto nel rifiuto da parte della Qualità di qualunque vera compenetrazione con il mondo dei servi: «Sapevano come ci chiamavamo e sapevano chi erano i nostri genitori. Ma non ci conoscevano. Perché non conoscerci era essenziale per il loro potere. Per poter vendere un figlio strappandolo alla madre, quella madre la devi conoscere nel modo più superficiale possibile. Per poter spogliare un uomo, condannarlo alla fustigazione, a essere scorticato vivo e poi cosparso d’acqua salata, non puoi provare verso di lui i sentimenti che provi verso i tuoi simili. Non puoi vedere te stesso in lui, altrimenti la tua mano si fermerebbe, e la tua mano non si deve mai fermare, perché in quel momento la Servitù vedrebbe che tu la vedi, e che quindi vedi te stesso».

Riappare la madre
Attraverso lo sguardo straordinariamente acuto di Hiram, Coates trascende la pura godibilità dell’intreccio e introduce una riflessione sui meccanismi di mancato rispecchiamento tra bianchi e neri degna delle migliori pagine di Toni Morrison. Il miracolo si ripete nei capitoli del romanzo in cui il protagonista scopre la vera natura del proprio dono, e il suo profondo legame con i ricordi più dolorosi e spesso rimossi. È l’apparizione della madre dimenticata a scatenare quella somma di tre elementi che lo stesso Hiram chiama la Conduzione: «l’evocazione di una storia, l’acqua e un oggetto che rendesse il ricordo reale come un mattone».

Per impossessarsi del dono, perciò, è necessario accettare il proprio retaggio di separazione, dolore e abbandono; prendere atto che l’arma in grado di trasportare uomini e donne dalla schiavitù alla libertà muove, anche simbolicamente, da un recupero e un consolidamento del ricordo. Era questa la morale profonda di Beloved, il capolavoro di Toni Morrison, e ora risuona nelle parole che la misteriosa Mosè rivolge a Hiram: «Ricordare, amico. Perché è la memoria il cocchio, è la memoria la via, è la memoria il ponte fra la dannazione della schiavitù e la benedizione della libertà».