Ricostruendo nel 2016 sulle pagine di «The Paris Review» la genesi del suo più fortunato libro, Tutto quello che è un uomo, David Szalay confessava di aver cercato di scrivere un testo che riflettesse, anche sotto il profilo compositivo, «la fluidità e la complessità dell’Europa contemporanea». Tant’è vero che in un primo momento il filo conduttore tra le nove storie che costituivano quell’atipico romanzo doveva essere la mobilità frenetica che rimescola oggi il Vecchio Continente, resa possibile dalla sempre maggiore accessibilità dei voli. Quasi la condizione naturale del cittadino europeo fosse ormai un moto perpetuo i cui ritmi convulsi risultano in diretta correlazione all’affievolirsi dello spaesamento a seguito della globalizzazione.

Sebbene nel corso della stesura il baricentro del testo si fosse spostato verso una indagine più tradizionale della psicologia maschile, ciò non significa che l’idea di partenza avesse perso per Szalay il suo fascino. Lo dimostra il suo ultimo libro, Turbolenza, anch’esso pubblicato da Adelphi nella nitida traduzione di Anna Rusconi (pp. 128, € 15,00). Qui lo scrittore di origini ungheresi nato a Montreal nel 1974 fa del volo l’esperienza paradigmatica della contemporaneità, esplorandone sia gli effetti esistenziali più prevedibili, sia i potenziali risvolti simbolici.

Se infatti l’intensificarsi degli spostamenti aerei ha mutato la nostra percezione del mondo, non è da escludersi che abbia lasciato tracce ancora più profonde sulla nostra psiche. O, almeno, è quanto viene in mente osservando i personaggi di queste dodici storie concatenate. Non importa che il protagonista di turno sia un oncologo indiano di stanza a Hong Kong, una giornalista di San Paolo alle prime armi o un giardiniere in un lussuoso compound di Doha.
Ed è altrettanto indifferente che ad attenderli fuori del terminal costoro trovino il Gatwick express, un autista di Uber o un colorato tuk-tuk: la loro soggettività è invariabilmente definita dai viaggi che gli consentono di tornare a casa per sfogare la propria aggressività repressa sulla moglie, andare a intervistare una famosa scrittrice a Toronto, o tentare di dimenticare una delusione amorosa giocando a golf col proprio insopportabile fratello in Vietnam.

Volo, ergo sum, sembrano dichiarare all’unisono gli uomini e le donne di Turbolenza, e i momenti di crisi in cui l’autore ama sorprenderli dopo averli rimbalzati da un capo all’altro del globo ricordano per l’appunto, nella loro imprevedibilità, momentanee turbolenze. Quasi gli innumerevoli voli presi per riannodare un rapporto, assistere un familiare malato o riabbracciare una figlia lontana condannassero le loro esistenze a una perenne sospensione nel vuoto.

Dal suo precedente libro Szalay trae pure la struttura ad anello, perfezionandola ulteriormente: qui le dodici storie corrispondenti ognuna a un fuso orario diverso sono disposte in senso contrario alle lancette dell’orologio; si parte da Londra (dove l’autore è cresciuto) e, contro il tempo, passando per Senegal, Brasile, Nord America, Estremo Oriente, India, Qatar e Budapest, si torna nella capitale britannica, per incontrare l’unico personaggio che non può volare – un profugo siriano col passaporto scaduto.

I dodici capitoli sono minimalisticamente titolati con le sigle (spesso criptiche) degli aeroporti di partenza e di arrivo, e un personaggio minore di ogni frammento, una volta sceso a terra, diventa il protagonista di quello successivo. Un congegno narrativo di certosina precisione che però a tratti appare compromesso dallo scarso rilievo dato dall’autore ai suoi personaggi.

Se in Tutto quello che è un uomo si accompagnavano all’immediatezza della tranche de vie caratteri in grado di imprimersi nella memoria del lettore, qui Szalay non riesce a evitare, almeno in alcune pagine, la trappola della banalità. Come se l’instabilità impressa alle vite dei suoi viaggiatori gli avesse impedito di distinguerne chiaramente i lineamenti.