Seminario di composizione a Perugia, negli ultimi anni ’80. Tutto può diventare musica. Il segno non è solo l’appunto per un’esecuzione. Ma lo stimolo per un’improvvisazione. Sylvano Bussotti colloca la fotografia della facciata del Duomo di Orvieto sul leggio del pianoforte. E suona una splendida fantasia musicale. Naturalmente, improvvisata. Oggi è di moda non già solo criticare le avanguardie del dopoguerra, il che è legittimo, ma demolirle, negarne ogni valore musicale: sarebbero o matematica senza rapporto con l’esito sonoro o utopia dadaista senza corrispondenza musicale.
La realtà è invece tutt’altro. È stata una ventata di aria fresca, una ubriacatura di libertà inventiva, lo scatenarsi di forze represse, una sana pulizia di ammuffite accademie. Che gli epigoni abbiano poi dato vita a un’altra forma di accademia, è un altro discorso. Ma gli inventori della prima ora erano geni: Stockhausen, Boulez, Berio, Nono erano un mondo nuovo. Vi si aggiunse Cage, che introdusse il gioco, l’arbitrio. Sylvano Bussotti vi s’introdusse come un protagonista assoluto, il dio che disordinava tutto. Una sorta di Hermes che scompiglia le carte. A cominciare dalla calligrafia delle sue partiture, simultaneamente partiture e litografia düreriana. Magari la Malinconia. Ha percorso per intero la seconda metà del secolo XX. Visitare il suo sito può chiarire: Bussottioperaballet. È la maschera irridente dell’opera d’arte totale, il rovescio dell’idea wagneriana. La passion selon Sade, nel 1965, con una sbalorditiva Cathy Berberian, sua musa, sua amica, moglie di Berio, voce di quasi tutta la musica di quegli anni, fu l’irruzione nel teatro musicale dell’avanguardia teatrale già in atto da tempo, e ne fu anche il modello.

SE NE RICORDERANNO Peter Weiss, nel 1964, quando mette in scena allo Schiller Theater di Berlino, il suo Marat-Sade, e Peter Brook quando nel 1966 ne trarrà un film con una leggedaria Glenda Jackson. Il teatro, la messa in scena, il furore, l’imprevedibilità del teatro, è la cifra per penetrare nello spirito della musica di Bussotti. Le Racine porta sulla scena un albergo parigino di appuntamenti in cui avvengono multipli e imprevedute combinazioni di accoppiamenti sessuali. Il nome del grande tragico francese – tra l’altro un locale simile esisteva veramente, e con quel nome – gioca a spiazzare lo spettatore, sospeso così tra i nobili deliri di Fedra e il mercimonio della prostituzione maschile.
L’omosessualità è il tema costante della musica, del teatro di Bussotti, esibita, inneggiata, vantata. Non ultimo motivo delle prese di distanza da parte di istituzioni e personalità della cultura, ma per gli stessi motivi poi le stesse istituzioni e gli stessi uomini di cultura cedevano alla seduzione della sua irresistibile fantasia di teatrante, di musicante, di clown, nel senso più nobile del termine. Viene in mente il bellissimo romanzo di Heinrich Böll, Memorie di un clown, del 1963. Come si vede, è il clima di quegli anni. La prima di Le Racine fu alla Piccola Scala, nel 1980. Anni dopo, per l’Accademia di Francia a Roma, l’opera fu rimaneggiata e riscritta con il titolo di Fedra. Bussotti, comunque, s’irritava, e giustamente, quando lo si accusava di barare, di non scrivere la musica che si ascoltava. E aveva ragione. La sua musica è scritta nota per nota nelle partiture. Con ampi spazi alla libertà d’improvvisare. Ma quegli spazi sono resi possibili dalla certezza dello spazio scritto in cui s’inseriscono. Mi rendo conto che è difficile spiegarlo, oggi, forse l’epoca meno disponibile alle invenzioni fantastiche che io abbia vissuta da quando sono nato, tutta attenta come sembra a rispettare regole o a infrangerle. Il mondo di Sylvano non aveva regole, perché le regole le inventava di volta in volta. Ed è questa la lezione, non solo sua, ma delle avanguardie alle quali apparteneva.

OGGI È FACILE deriderle o negarle, perché non le si riconosce. Più semplice restaurare il già fatto. Come se si fosse ossessionati da una smania di normalità, di condivisione, di evitare gli eccessi: da un’ansia di comprensibilità. L’incomprensibile, o perché troppo individuale o perché troppo colto, per carità, evitiamolo: tutti devono capire. L’incomprensibile è snob, è sconveniente, antidemocratico. E pensare che invece proprio questo si prefiggevano le avanguardie: rendere comprensibile l’incomprensibile. Bussotti ne era maestro. Tutti, infatti, lo capivano, almeno quelli che andavano a teatro, ai concerti, per quanto strana potesse essere percepita la sua musica, estravagante il suo teatro. Ma lo sappiamo, no? Hermes è il dio dei misteri. Ebbene, Sylvano Bussotti ne era una perfetta epifania. Mi manca, mi mancherà molto.