L’ultimo pinguino di Sybille Grimbert, edito in Italia da Solferino (pp. 256, euro 17) nella traduzione di Marina Visentin, è la storia dell’incontro tra animale umano e animale non umano – in un tempo non troppo lontano, in cui lontano era invece il presagio della crisi ecologica. Siamo a Lille in Francia, tra la prima e la seconda metà del XIX secolo, e troviamo Gus, un giovane ed entusiasta zoologo in partenza per l’Europa del Nord, terreno di ricerca che diventerà anche la sua casa. Il ricercatore incontra sul proprio cammino quella che scoprirà essere l’ultima alca impenne, ultimo esemplare dei grandi pinguini sopravvissuto al massacro della sua colonia da parte dei marinai sull’isola di Eldey a sud ovest dell’Islanda.

Nel suo libro, il pinguino Prosp evolve nel suo rapporto con Gus. In un primo tempo il giovane studioso lo osserva attraverso le sbarre, con l’occhio del ricercatore, poi nell’avvicendarsi del romanzo si risolve a guardarlo come un compagno. Cosa conduce lo zoologo a questa mutazione dello sguardo? Come sono cambiate secondo lei in letteratura le rappresentazioni delle specie animali?
È semplice: Gus inizia ad amare. Gus, che è un uomo del suo tempo, all’inizio vede questo animale come un essere identico, fino alla più piccola piuma, a quelli della sua specie, senza alcun carattere proprio a parte i suoi bisogni. Tuttavia, quando lo osserva, lo vede come un essere vivente con reazioni proprie. E più il suo sguardo l’individualizza, più gli si affeziona. In un certo senso, credo che sia quello che facciamo tutti noi ogni giorno quando incontriamo qualcuno che ci colpisce. Questa persona ha una voce, dei gesti propri, esiste. Da quel momento in poi in poi la individuiamo, e forse ci piacerà oppure no, ma questa persona sarà esistita per noi. È un po’ così, solo che si tratta di un animale e quindi di un essere con cui Gus non parlerà mai. Ma a parte il linguaggio verbale, il meccanismo è lo stesso.

L’evoluzione di Gus, da questo punto di vista, segue quella dei nostri animali domestici e del posto degli animali nei libri. Da secondari, o addirittura assenti, sono diventati centrali (si pensi ovviamente, almeno in Francia, all’opera di Colette). La loro radicale alterità ci affascina, ci chiediamo cosa pensino. Tutto ciò che li riguarda è estraneo, tutto ciò che sperimentano ci rimane sconosciuto, e senza dubbio amiamo un mistero che non riusciamo mai a cogliere appieno. E poi, credo, gli animali ci offrono due sentimenti che ci piace provare proprio per la loro opacità: l’amore incondizionato che proviamo per loro e il loro senso di responsabilità gratuita – l’oblatività insomma. Questo li rende personaggi perfetti per i libri, cioè perfetti anche per studiare noi stessi e i nostri sentimenti.

Nel suo romanzo lo zoologo protagonista anticipa l’idea della possibile estinzione di una specie, cioè come lei scrive, scopre «una realtà prima di poterla comprendere». Per un uomo dei primi dell’Ottocento infatti era davvero difficile concepire l’estinzione, almeno fino alle scoperte dell’ornitologo Hugh Edwin Strickland a proposito del Dodo. Perché ancora oggi sembra essere così complesso assumersi la consapevolezza che siamo di fronte alla sesta estinzione di massa?
Forse stiamo arrivando a capirlo. Tuttavia, mi piace pensare che se facciamo fatica ad accettarlo, è perché è insopportabile essere colpevoli del male che facciamo e che ci facciamo. In qualche modo non posso credere che non ce ne rendiamo conto, o che ce non ce rendiamo conto perché siamo stupidamente indifferenti o increduli per avidità. Parlo della la maggior parte di noi. Mi sembra che riusciamo a cogliere le cose solo attraverso la nostra sensibilità, e non attraverso i discorsi politici, per esempio, che contengono sempre distorsioni e una certa dose di astrazione.

Questo è ciò che accade a Gus: ama Prosp e, proprio perché lo ama, si spinge a ricercare se può reintrodurlo in natura e se ci sono altri grandi pinguini che vivono sulla Terra. Spinto dalla sua sensibilità, può iniziare a pensare, indagare e rendersi conto che sta vivendo con l’ultimo esemplare vivente della sua specie. Mi sono interessata agli animali e all’estinzione soprattutto perché dei libri mi hanno commosso e toccato. Improvvisamente, ho capito che qualcosa che non conoscevo prima – gli animali e i loro pensieri, ma anche la fine degli animali – esisteva davanti a me. Nessun discorso ideologico avrebbe potuto scuotermi come quello sensibile, e nessun discorso politico avrebbe potuto farmi capire qualcosa che non sentivo intimamente. Faccio una sorta di professione di fede nella letteratura, perché invece nel mondo di oggi, dove si legge meno – non solo romanzi, tra l’altro – le cose e le idee diventano astrazioni ridotte a una considerazione sul bene e del male. Mentre i libri (nel mio caso), con la loro ricchezza, la loro profondità, la loro complessità, le emozioni che ci offrono, ci permettono di fare scoperte che cogliamo dall’interno, e quindi ci modificano come solo un’esperienza può fare, in modo da poter accettare anche ciò che disturba le nostre abitudini, il nostro comfort.

Gli animali hanno da sempre ispirato scrittrici e scrittori. Come esplorare le relazioni tra animali umani e non umani alla luce della crisi ecologica?
Tutto sta cambiando sotto i nostri occhi. L’etologia ci sta insegnando cose sugli animali che erano inimmaginabili anche solo venti anni fa. Ci si chiede se gli animali piangono o ridono, si scopre che gli elefanti scherzano, che gli scimpanzé fomentano colpi di stato, praticano cospirazioni per rovesciare le alleanze politiche, ecc. È un nuovo continente, quasi un intero universo, che stiamo scoprendo con lo stesso sguardo affascinato che avevamo quando scoprivamo terre, studiavamo popoli sconosciuti in passato, facevamo (più o meno all’epoca del mio personaggio, Gus, nel XIX secolo) scoperte sconvolgenti, come quella del primo dinosauro nel 1815. Esito tra diverse ipotesi per spiegare la concomitanza tra queste scoperte e la consapevolezza della crisi ecologica: forse stiamo osservando e riflettendo, come bambini, un minuto prima della catastrofe, su ciò che stiamo perdendo; oppure è solo una sorprendente coincidenza del calendario; o ancora – il che potrebbe abbracciare entrambe le cose – vogliamo conoscere l’ultimo regno terrestre che ancora ci sfugge. È come se fossimo caratterizzati dalla nostra capacità di esaurire, o cercare di esaurire, tutte le conoscenze sul nostro pianeta. Da romanziera direi che ci stiamo imbarcando nel nostro ultimo dominio sconosciuto prima che tutto scompaia.

In conclusione al suo libro spiega che con questo suo testo ha volute omaggiare alcuni grandi libri che le hanno dato lo slancio per il suo. Può parlarci del «Grand Pingouin» di Henri Gourdin? Quale è per lei il valore di questa eredità?
Il libro di Henri Gourdin mi ha illuminato sulla specie dell’Alca Impenne (ne racconta la storia), quindi è stato fondamentale leggerlo per conoscere la vita del mio eroe. Ma altri libri hanno influenzato la mia sensibilità. Per esempio, cito anche un libro di Joanna Burger, che è stato ancora più importante per me. Una grande accademica americana racconta il suo legame con un pappagallo ereditato quasi per caso. Prima di leggerla, non mi ero mai interessata agli uccelli. Grazie a lei, ho iniziato a vederli come animali emozionanti, intelligenti, con sentimenti profondi e un carattere individuale (ora sono sicura che tutti gli animali hanno queste caratteristiche, ognuno a modo suo). Potrei elencare un numero enorme di libri che mi nutrono quando scrivo, e grazie ai quali scrivo tout court. Non tutti parlano di animali, ma quelli che lo fanno mi hanno aperto in qualche modo a questo interrogativo, alla loro differenza, alla loro eccitante alterità, al mistero che circonda la nostra comunicazione con loro. Vorrei citare anche un meraviglioso autore ungherese, Tibor Déry, autore di Niki, storia di un cane (1956).

Una parte della storia è ambientata a sud dell’Islanda, nelle splendide Isole Fær Øer, che lei descrive come un luogo d’incanto quasi ipnotico.
Non sono mai stata in Islanda o nelle isole Fær Øer. Ma era il luogo in cui vivevano i grandi pinguini, quindi dovevo scoprirlo. Avevo una chance: mi piacciono i paesaggi freddi, e anche i mari freddi, e li conosco bene. Questo mi ha permesso di sentirli facilmente dall’interno, e credo sia stata la cosa più importante. Poi alcune letture e ricerche mi hanno aiutato a perfezionare il mio approccio. Sono paesaggi che mi deliziano e mi sorprendono, e allo stesso tempo mi angosciano per la loro mancanza di morbidezza, quella morbidezza che troviamo in Francia, ma anche in Italia e che troviamo dove, soprattutto, ci sono alberi. Quei paesaggi ne sono privi, il che li rende (dal mio punto di vista) poco terreni. Se ci riuscirò, il mio prossimo libro sarà ambientato in Italia, in un angolo remoto dove sono stata solo una volta, ma per molto tempo. Non cercherò di tornarci mentre scrivo perché voglio mantenere intatta la sensazione di quel paesaggio, ed è con essa che scriverò. Così come scrivevo con la sensazione dei paesaggi marini freddi.