Dopo 36 anni di assenza, alla Teatro alla Scala di Milano è in scena fino al 25 ottobre Ernani di Giuseppe Verdi. Curiosamente questa produzione nuova, che vede sul podio Ádám Fischer e alla regia Sven-Eric Bechtolf, condivide con il suo antecedente remoto e illustre del 1982, firmato da Riccardo Muti e Luca Ronconi, una natura ambigua e potenzialmente controversa. Al netto di paragoni troppo meccanici, che rischiano sempre di rivolversi in ingrate petizioni di principio, entrambi gli spettacoli giustappongono un’esecuzione romanticamente fiammeggiante della musica e del canto a un allestimento scenico-registico in cui un’ironia non troppo marcata introduce elementi di straniamento.

Lo straniamento, si sa, implica una distanza emotiva che il pubblico, in particolare quello più viscerale, rischia di fraintendere. Un rischio consapevole al quale, alla prima dell’Ernani, dedicata al maestro Tullio Serafin nel cinquantesimo della sua scomparsa, i famigerati loggionisti della Scala, assecondando un principio di azione e reazione che assomiglia sempre più a una coazione a ripetere il ruolo autoassegnato di custodi di una «tradizione» discutibilissima, hanno dato corpo con fischi e improperi. Ciò detto, mondato di tifoserie acritiche e facili reazioni intestinali, lo spettacolo tenta di risolvere il rompicapo prodotto puntualmente dall’intenzione di far arrivare al pubblico contemporaneo quest’opera giovanile di Verdi, dove pagine musicali geniali alternate a pagine assai più schematiche vestono un libretto sgangherato e pieno di salti logici e psicologici. Il dilemma è senza scampo: o si finge di poter proporre oggi una vicenda di onore, peraltro giocata sui tre piani paralleli dei protagonisti maschili, scarnificata al punto da essere a tratti grottescamente meccanica, o si tenta di muoversi su un altro piano, in cui si dichiara la teatralità del tutto e così si mettono da parte oziose questioni di ovvia inverosimiglianza. Bechtolf, aiutato dalle scene di Julian Crouch, dai costumi di Kevin Pollard, dalle luci di Marco Filibeck e dalle coreografie di Lara Montanaro, mette a punto uno spettacolo che inscena un allestimento dell’Ernani in un teatro italiano di provincia dell’Ottocento, disseminandolo di gesti leggeri che smorzano le intenzioni tragiche del testo.

Intenzioni rese ormai opache dal tempo e dal mutare delle tradizioni, dei costumi e dei gusti, liberando il pubblico dall’impaccio di immedesimarsi in sentimenti che non gli appartengono e che non potrebbe comunque fare suoi e soprattutto consentendogli di concentrarsi sull’essenza vera dell’opera, che è l’opera stessa, ovvero il suo essere musica e canto. A questo proposito, corre l’obbligo di rilevare come Fischer, che di Verdi è avvezzo a dirigere Otello più che Ernani, si sia immerso a tal punto nella tinta della partitura – dando voce alla scrittura di un compositore che, mentre cerca un suo stile drammaturgico, sperimenta, rompe codici, eccede, disattende aspettative – da metter da parte la compassatezza che lo contraddistingue per una spavalderia a tratti travolgente. Lo asseconda in questo impeto una compagnia di canto assai generosa: Francesco Meli, non lesina voce e volume, tratteggiando un Ernani monolitico; lo seguono a ruota Luca Salsi e Ildar Abdrazakov, più sfumati ma altrettanto scultorei nei rispettivi Don Carlo e Silva; Ailyn Pérez, ingiustamente fischiata dai soliti loggionisti, sfoggia un timbro lirico di tutto rispetto e una tempra che le permette di cesellare un’Elvira che riesce a ritagliarsi un posto in un mondo integralmente maschile.