In ogni minima attestazione di presenza Gianni Celati non fa che insistere sul suo scarto assoluto da una sensazionalità falsa e strillata: «l’unico lavoro che si può fare, in ciò che si scrive, è togliere di mezzo quell’a-priori pubblicitario, decondizionando chi legge, anche a costo di renderlo perplesso. Questo è un modo per cavarsi fuori dalle furberie dei libri di successo, che giocano sempre sugli a-priori pubblicitari».

Nei racconti così come negli scritti di viaggio (quei taccuini nati dalla disponibilità di uno sguardo felicemente rasoterra, tra cui spicca un’esperienza memorabile come Verso la foce), nei documentari italiani e africani, anche nelle derive favolatrici più praticabili e trasparenti, in Celati il narrare di rado procede disgiunto da un quieto rovello sul come narrare, che a sua volta appare sempre una conseguenza diretta del come stare al mondo: ma infine questo non fa problema, perché in lui è questione prodigiosamente risolta da sempre. Come si vede adesso anche nei quattro racconti riuniti in Selve d’amore (Quodlibet «Compagnia Extra», pp. 120, euro12,50) ne nasce per chi si accosti alle sue parole una lieve, ma contenta, sensazione di scollamento: non c’è quasi una sola pagina in cui non emerga – assieme a quello speciale smarrimento cosciente dell’essere al mondo qui, ora che Celati ci ha insegnato a riconoscere e coltivare – l’indifferenza alle intenzioni, con un sottile profumo di canzonatura. Chi narra è qualcuno che riferisce storie, forse per sentito dire, ma non ricorda, non sa tutto, cambia strada di botto e alla fine addirittura inventa, non è garante di un bel nulla, scioglie nell’indefinito la pretesa di affermare: così, nel mezzo del resoconto sulle investigazioni del solitario ispettore Muccinelli in una corrotta cittaduzza di provincia, si taglia corto: «Saltiamo questo dettaglio, che qui non ha nessuna importanza; e mandiamo un affettuoso saluto alla signora Flora, guardarobiera all’Albergo Leon d’Oro, persona amabilissima che un giorno o l’altro forse ritroveremo sulla nostra strada. Poi è successo che una notte, mentre il malinconico Muccinelli tornava all’Albergo del Leon d’Oro, gli sono saltati addosso cinque mecchi mandati dai gargagna più in sopranza della nostra città (traducendo: “cinque picchiatori della malavita mandati dai capi malavitosi con più alto grado nella nostra città”)». Come se niente fosse, ecco due gentili sgambetti: una mossa a sorpresa che ricorda la svagatezza erratica, ingannevole e priva di scopo del miglior Robert Walser (quello di Jakob von Gunten e soprattutto del Brigante) e l’ironia su una lingua un giorno vitale che va morendo come i paesaggi intorno al Po, come certi modi di passare e far passare il tempo; ironia che nel suo volersi minima maschera una ferita.

Dei quattro racconti che compongono questo ideale terzo volume della trilogia dei Costumi degli italiani, almeno due (gli estremi, vale a dire il pezzo eponimo e La notte) sono notevoli. E viene da chiedersi per l’ennesima volta cosa leghi queste «vite di pascolanti», aliene ai comuni slanci e ai suffragi umani, soggette a «stati di trasognamento», alla vicenda complessiva di Celati, autore così inafferrabile, irriducibile a una forma sola eppure tutto in luce, almeno in apparenza; nonché stupendamente disinteressato alla dittatura del «dover scrivere», al pari di un altro suo spirito affine, Antonio Delfini (però anche qui, in quello che vorrebbe presentarsi come stile a bassa intensità e senza centro, quanti soprassalti, quante aure immaginative in un giro di frase).

Si può rispondere che tutto sta in una tonalità delle percezioni, in uno sguardo sospeso, non inchiodato alla volontà né votato a un distacco definitivo; e nell’ideale abbandono a un tempo disteso, dilatato, dove la vita non sia più un progetto e il racconto non sia più un rendere conto. È la stessa esigenza (la fedeltà al «niente di speciale») ad aver ispirato tante altre occasioni di scrittura, come il più recente viaggio africano in Passar la vita a Diol Kadd: «Vorrei che tutto apparisse meno romanzesco possibile, perché non se ne può più di queste vite da romanzo a cui dovrebbe somigliare anche la nostra. Giorno per giorno passa la vita e basta».

Sta pur sempre qui – insieme a una comicità in cui il riso non riscatta la pena, e la pena non insuperbisce il pensiero – l’abbassamento, l’alleggerimento che in Selve d’amore – sulle tracce fantasticanti di una linea ariostesca della nostra letteratura proseguita da Zavattini e Fellini – discende dalle memorie di una gioventù vissuta in provincia: come su una pellicola ingiallita, sfilano le vite attonite di quegli stravaganti ormai schiacciati dalle sirene del presente, ridotti a una bizzarria incomprensibile, a una curiosità folcloristica e pittoresca: «La solitudine sociale! L’uomo solo in mezzo alla folla, ma indicato a dito come cretino».

La cesura è evidente, nell’idea della vita, nella grana stessa delle parole. «Lo sfogo della svagatezza fantastica è ormai cosa del passato», ha scritto altrove Celati, «anche dalle nostre parti le nuove generazioni sono assoggettate a un’idea pubblicitaria di normalità della vita». E invece in Selve d’amore nulla è sicuro: pensiamo al primo racconto, quando nel bel mezzo delle misteriose vertigini erotiche attraversate da uno studente si apre la leggerezza di uno squarcio visionario: «Basta: ora vedo prati, penso agli spiriti dell’acqua che riflettono il cielo, e il cielo che si china su di loro mutando eternamente».

Non solo per questo, si sbaglierebbe a voler spremere da qualcuno di questi pezzi in prosa un qualche succo di «documento». Così come si sbaglierebbe a confonderne la concretezza in una retorica dell’innocenza. Qualche anno fa, introducendo la sua scelta di racconti di Delfini apparsa da Einaudi, Celati citava una nota dai Diari dell’autore del Ricordo della Basca a proposito di come la memoria di un’esperienza si riveli molto più dolce rispetto all’intensità originaria di quella stessa esperienza, vissuta. Perciò il ricordo, se si è assistiti da una vigorosa immaginazione, si può persino inventare. Sono allora davvero cose viste, queste di Celati? O non piuttosto, per tornare a un altro lampo delfiniano, novelle nutrite dalla «memoria di ciò che non è stato?». E poi, cosa può trovare di inaspettato lo scrittore che si illuda di detenere il dominio sulle parole? Per l’ultimo Celati bisogna farsi portare dalla lingua, come canticchiando sovrappensiero, farsi piccoli, perdere peso proprio perché non c’è nulla da perdere, distrarsi dal mondo e dalle intenzioni: sulle onde di una «cadenza che invita al pensiero», un succedersi di basse intensità che nasce direttamente dal capriccio del corpo. Non c’è programma, non c’è schema: «Ed è come per queste parole che adesso mi vengono fuori dalla penna – non lo so perché, ma so che nascono da un risucchio dove tutto mi torna in mente, tutto si ripete nel giro delle cose attraverso i racconti».

«Glissez, mortels, n’appuyez pas», recitavano dei versi settecenteschi che Leopardi trascrisse nello Zibaldone vedendovi il culmine di ogni sapere: perché l’esperienza ci ha insegnato soltanto «quello che da fanciulli ci era connaturale e che poi abbiamo dimenticato e perduto a forza di sapienza». Anche Celati sa e sente benissimo che bisogna scivolare, mai forzare sulle cose e sul mondo; e quindi saranno filosofici, questi suoi racconti, proprio pensando all’unica filosofia che valga, quella il cui fine è farci smettere di filosofare. «Tra un po’ parlerò della notte, la bella notte, che è come un buco vuoto dove le cose aspettano che passi via il farnetico, e il buio e l’incerto vengano a dirci che i nostri timorosi desideri si sono tutti assopiti, e il cuore è finalmente sazio».

L’inclinazione più covata, più corteggiata è infatti quella di dimenticare se stessi, abbandonare la coscienza. Se Pucci, nell’ultimo racconto, aspettando la sua ultima notte prima di tornare in manicomio, sente in giardino un’upupa, sa che «quel grido dava la voglia di lasciarsi andare al sonno». Potrà poi tornare pacificato nella luce discreta del qualsiasi, nel viluppo delle «cose usuali che sono solo quello che sono», nel loro ripetersi «più o meno uguale e senza scopo». Come la luce silenziosa di una supernova, ancora più potente perché già irrimediabilmente lontana, il ritmo del narrare e le stesse parole di Celati prendono in controtempo la realtà distorta che ci sovrasta; arrivano da un mondo in cui poteva ancora esserci un’alternativa all’urlo muto in cui siamo immersi. Si direbbe che indichino una terza via tra adesione e rifiuto, se non fosse che non è una via. L’emozione narrativa che ha in Celati il suo solitario artigiano sembra fatta di nulla e diffonde attorno a sé il richiamo di una possibilità d’esistenza che non potrà più incarnarsi, il brillio estatico di una inclinazione fantastica: quella a cui abbiamo ancora diritto se vogliamo che la vita sia una cosa viva e non un simulacro o un anticipo della morte. C’è una parola precisa per definire questo stato, una parola in altre epoche fortunata, e che non bisogna temere di usare: felicità.