Nata a Budapest, Susanna Egri è ballerina, coreografa e insegnante di danza. È figlia di Erno Egri Erbstein, il cui nome è legato, da allenatore, all’indimenticabile epopea del Grande Torino del quale ha condiviso la tragica fine avvenuta a Superga il 4 maggio del 1949 e sulla cui figura è prevista per la prossima primavera la pubblicazione di una biografia scritta da Dominic Bliss, in corso di traduzione per Cairo Editore. Ungherese di origine ebraica, costretto dalle leggi razziali a lasciare l’Italia, ha firmato nel dopoguerra, una delle più belle pagine della storia del calcio mondiale precedendo la rivoluzione del calcio totale olandese. Anche Susanna è stata precorritrice, ma nel mondo della danza che l’ha vista perfezionarsi in Francia e negli Usa. Dal 1949 partecipa ai programmi sperimentali della televisione italiana e si esibisce in tv alla prima trasmissione ufficiale della Rai.

Nel 2019 saranno passati settant’anni dalla sciagura di Superga in cui perì l’intera squadra del Grande Torino guidato da suo padre. Lei come descriverebbe Erno Egri Erbstein?

Era una persona luminosa, capace di mettere a suo agio chiunque l’avvicinasse e di dare la sensazione di essere una persona speciale. E lo era veramente, ma era anche di una semplicità e di un’umanità di un’immediatezza assolute. Niente a che vedere con la figura dell’intellettuale che si pone come un’icona, tutt’altro. Mio padre era davvero una persona alla mano che faceva in modo che tutti si sentissero bene con lui. Comprensivo su tutto, ma provvisto, allo stesso tempo, di un’etica incrollabile. Io e mia sorella siamo cresciute con dei principi etici, non confessionali. Io, per esempio, non sapevo che lui fosse di origine ebraica, l’ho appreso con mio enorme sbigottimento quando sono state promulgate le leggi razziali. Perché lì, tutt’a un tratto, è emerso che contava l’origine della persona, non ciò che questa professava nella vita. Cioè, io non sapevo neanche cosa volesse dire «ebreo», poi noi stavamo a Lucca, che non era come Budapest dove c’erano moltissimi ebrei che sono sempre stati un po’ l’élite culturale ungherese. A Lucca questo non c’era, quindi ciò che stava accadendo era per me qualcosa di assolutamente incomprensibile.

Susanna Egri

Suo padre ha lasciato il ricordo di un uomo che riscuoteva fiducia e stima dentro e fuori i campi da calcio.

I giocatori lo adoravano, pendevano dalle sue labbra, sono rimaste leggendarie le concioni che faceva nello spogliatoio prima della partita. Stavano tutti incantati ad ascoltarlo, i suoi interventi preparavano, spronavano i giocatori. Trovava sempre le parole giuste, lei sa quanto sia importante la parola. Lo sapeva anche lui che era sostanzialmente un giocatore. Mio padre ha sempre preso la vita come un gioco, un gioco molto serio, naturalmente. Nel suo approccio alle cose c’era sempre una componente ludica che io ho ereditato: anche la danza è un gioco, l’arte è un gioco. Quindi molto presto ho fatto mia una delle sue letture pilota che era Homo ludens di Johan Huizinga, che avevamo in casa. Io l’ho letto da ragazzina e ogni tanto lo riprendo in mano. A causa delle leggi razziali, mio padre ha dovuto cambiare vita e si è trovato, insieme a noi, che eravamo la sua famiglia, in una situazione terribile, perché siamo dovuti tornare a Budapest dove abbiamo dovuto ricominciare da zero. Io ero affranta perché avevo dovuto lasciare l’Italia e tutte le mie amicizie, e abbandonare gli studi per motivi incomprensibili. Se non ci fosse stato lui con la sua consueta prontezza, io sarei crollata miseramente. A Budapest stavamo, in un primo momento, a casa di nostro nonno paterno. Una volta, mio padre, in uno dei suoi soggiorni a Torino, mi ha scritto una lettera meravigliosa, in italiano, che secondo me dovrebbe essere inserita in un’antologia per le scuole perché è piena di belle parole e di un incoraggiamento di cui un giovane ha bisogno e che mi è stata di grande sostegno.

Si parla di lui come di un uomo capace di conservare lucidità e calma anche nei momenti più difficili, come durante la guerra e le persecuzioni ai danni degli ebrei.

Si tratta di una qualità fondamentale che spero di aver ereditato almeno in parte. Dopo che abbiamo dovuto lasciare Torino ci siamo diretti in Olanda perché mio padre avrebbe dovuto allenare lo Xerxes. Siamo partiti da Torino tranquilli perché era tutto organizzato, sapevamo che non saremmo andati incontro all’ignoto. Alla fine avevamo preso la cosa come un fatto quasi normale in quanto lui era un allenatore e si sa che chi fa il suo lavoro cambia squadra facilmente. Durante il tragitto in treno ho compiuto tredici anni e mio padre mi ha dato in regalo il libro che aveva portato con sé per l’occasione: Elogio della follia di Erasmo da Rotterdam in edizione bilingue, latina e italiana. Mi aveva detto: «vedi, questo famoso filosofo di Rotterdam è andato a Torino a studiare all’università e noi facciamo il contrario. Potrai continuare i tuoi studi nella sua città». Al confine ci hanno inspiegabilmente annullato il visto e quella è stata l’unica volta che l’ho visto veramente affranto. Nessuno di noi in quel momento sapeva cosa fare.

E poi cos’è successo?

Mio padre ha chiamato il consolato olandese a Torino i cui addetti, incapaci di darsi una spiegazione dell’accaduto, gli hanno chiesto di rispedire i passaporti. C’è voluto un mese che abbiamo trascorso in un alloggio di fortuna, una casa orribile contrassegnata dalla stella di David, dove trovavano posto numerose famiglie ebree. È stato un mese tremendo di attesa durante il quale mia madre si è ammalata. Purtroppo il nostro visto è stato annullato anche la seconda volta e siamo dovuti tornare in Ungheria: mio padre aveva comprato i biglietti con i soldi che si era fatto mandare da Budapest da suo fratello Károly. Da Budapest ogni tanto andava a Torino dov’era stimato dai dirigenti della squadra che erano per lo più imprenditori tessili. Questi ultimi gli hanno proposto di diventare rappresentante, in Ungheria, dei loro tessuti che erano molto ambiti durante la guerra. Così mio padre ha intrapreso una nuova attività con successo dandoci modo di vivere agiatamente. Nel contempo, però, continuava a occuparsi della squadra del Torino aiutando la dirigenza a creare una squadra forte. È stato lui a far comprare giocatori come Mazzola, Loik, Grezar.

Lei che ha dedicato la vita alla danza ed è diventata una ballerina affermata a livello internazionale, che rapporto ha avuto col calcio?

Il calcio mi piaceva tantissimo, già dai tempi di Lucca non avrei mai rinunciato a una partita e spesso seguivo la squadra anche in trasferta con mia madre. Seguivamo anche il Grande Torino e l’ultima volta che ho visto mio padre è stata a Milano, prima della partenza della squadra per Lisbona.

Ha quindi un ricordo personale anche dei ragazzi del Grande Torino…

Certamente. Quella sera, a Milano, siamo andati a cena tutti insieme dopo la partita. Mazzola era al tavolo con noi e aveva un po’ di influenza; diceva di non voler comunque rinunciare all’incontro di Lisbona tanto più che era stato lui a organizzare l’amichevole col Benfica di Ferreira. Ricordo di averli salutati tutti al momento del nostro rientro con un nostro conoscente, grande tifoso, che ci aveva portate in macchina a Milano e che ci avrebbe riaccompagnate a Torino. Dopo cena mio padre ci ha accompagnate all’auto che era parcheggiata fuori dall’Hotel Touring. Lo vedo ancora che ci saluta mentre entriamo in macchina; è l’ultima immagine che ho di lui. Così, per mesi, mi sono rifiutata di credere che fosse morto.

Cosa ricorda di quel 4 maggio 1949?

Quello è stato il crollo per me, perché, finché c’era mio padre, né le Croci frecciate né altri avrebbero potuto farci del male. Senza di lui non sapevo cosa fare. È stato terribile, considerando anche come l’ho saputo. Quel giorno stavo partendo per Parigi e mio padre sarebbe dovuto tornare nel pomeriggio con la squadra a bordo di un volo charter, ma non si sapeva se l’aereo sarebbe atterrato a Milano o a Torino. Ricordo che era una giornata orrenda, era maggio ma pioveva ed era buio già di pomeriggio. Io ho aspettato un po’, ho aspettato finché ho potuto ma a un certo punto ho deciso di prendere il treno e ricordo di aver chiesto alla mamma di scusarmi col babbo e di dirgli dell’invito che avevo ricevuto a Parigi come ballerina. In treno c’erano due signore che, parlando fra di loro, dicevano che l’aereo del Torino era precipitato e che erano tutti morti. Ho chiesto, bianca in volto, e mi hanno detto che non sapevano niente di preciso. Sono stata raggiunta alla stazione da un’amica di famiglia che mi ha informata facendomi scendere dal treno che era già partito. Sono dovuta tornare a casa per dire alla mamma cos’era successo. Sono poi andata a Superga e lì è stato veramente il vuoto. A lungo non ho voluto credere che mio padre non ci fosse più. Ora è come se fossi in costante contatto con lui, e nei momenti di difficoltà mi aiuta il pensiero di cosa avrebbe fatto mio padre al posto mio. Non è vero che quando vado a Superga mi dispero, perché lì mi sembra di cogliere i suoi ultimi istanti di vita e questa è come una luce che mi porto dentro.