Nata nel campo degli studi cinematografici, ma esportata anche altrove, l’espressione effetto Rashomon viene utilizzata per indicare quelle serie di complesse cornici epistemologiche che, come nell’omonimo capolavoro di Akira Kurosawa, giocano con il relativismo della percezione, con la soggettività e con la pura e semplice menzogna per distorcere la narrazione di determinate circostanze, che vengono così a frammentarsi in un mosaico di punti di vista spesso inconciliabili.

In una prospettiva romanzesca questa stessa espressione potrebbe indicare l’azione d’insieme di un gruppo di narratori inattendibili, ovvero dei quali il lettore non può fidarsi ciecamente mentre cerca di giungere a una ricostruzione degli eventi. Per quel che riguarda la letteratura statunitense, l’utilizzo forse più celebre di questa costruzione dell’intreccio (precedente, quindi, all’esempio di Kurosawa) è in Assalonne, Assalonne! in cui William Faulkner sfrutta i racconti incoerenti di un pugno di personaggi per rivelare passo dopo passo la verità sulla storia del diabolico Thomas Sutpen e dei suoi eredi.

Un espediente simile viene impiegato anche da Susan Choi nel suo ultimo romanzo, Esercizi di fiducia (nell’ottima traduzione di Isabella Zani per Sur, pp. 311, € 18,00), vincitore del National Book Award per la narrativa nel 2019.

Al centro del racconto, le vite di un gruppo di adolescenti che frequentano la classe di recitazione di una prestigiosa scuola dedicata a coltivare nei propri pupilli ogni tipo creatività. Le soggettività ingombranti cui viene affidato il racconto funzionano tuttavia più come ostacoli tra il lettore e la realtà dei fatti che come tramiti per comprenderla, rendendo il romanzo un elegante esercizio di occultamento. Prima teenager, di diversa estrazione sociale ma sempre in qualche modo problematici, poi adulti disfunzionali incapaci di lasciarsi il passato alle spalle, i protagonisti appaiono in ogni caso inaffidabili, preda di amori e malumori, accomunati da un malsano senso di competizione ulteriormente esacerbato dal narcisismo tipico dei giovani talenti. Per acuire ulteriormente l’alone di indeterminatezza, infine, la scuola dove tutto si svolge è situata in una città che resta anonima per l’intera durata del romanzo.

La centralità occupata nella trama dal teatro non è ovviamente casuale: Choi utilizza infatti i personaggi come maschere capaci di passare agilmente da un ruolo all’altro secondo le indicazioni del regista di turno. Sulla scena, diverse autrici, ciascuna in possesso di un suo stile, di una sua sensibilità e anche di una notevole dose di disonestà. Sarah, che diventerà una scrittrice di successo, racconta la tormentata storia d’amore con l’egocentrico David impiegando una percepibile dose di pretenziosità e romantica decadenza ottenuta accentuando le sudate pulsioni sessuali che animano i due amanti.

Una anonima compagna di classe dei due dichiarerà poi la sua intenzione di riportare con precisione quanto avvenuto durante la propria giovinezza, spogliando la storia di Sarah di ogni artificiosità. Ma anche la solidità di questa seconda versione viene progressivamente smontata da Choi attraverso l’utilizzo virtuoso di una prosa che sembra perdere di vista l’io narrante, sfilacciandosi e ricomponendosi solo al prezzo di un notevole sforzo. L’ultima sezione del romanzo, la più breve e rarefatta, sembrerebbe finalmente rischiarare il fondo buio della trama, ma è ormai difficile affidarsi senza riserve al flusso del racconto.

Ecco allora che gli esercizi di fiducia che danno il titolo al romanzo, e che sono parte del metodo didattico del terribile insegnante di recitazione, il professor Kingsley, rompono la quarta parete e diventano veicolo di uno scambio metanarrativo con il lettore. Uno di questi esercizi, giocato sulla decostruzione e sulla ricostruzione dell’Io, e sulla discrepanza tra oggettività e soggettività, funziona come una sorta di mise en abîme della tecnica impiegata da Choi, che sembra rivelarsi tramite il racconto di Sarah, coinvolta suo malgrado nella pratica dal professor Kingsley. Quest’ultimo personaggio, sempre in bilico tra il messianico e il perverso (e forse vero fulcro degli eventi) è solo uno dei tanti enigmi che la scrittrice, con la complicità dei suoi narratori, sottrae sistematicamente alla nostra piena comprensione.

Si potrebbe pensare che Esercizi di fiducia sia in definitiva poco più di una raccolta di esercizi di stile, uno sfoggio virtuosistico attraverso il quale Choi dà sfogo alla propria bravura tecnica con malcelato compiacimento. Ma la forma del romanzo resta in un certo senso sempre in bilico su una sostanza oscura e disturbante, e lo stile dell’autrice sembra spingersi oltre i confini della propria raffinatezza nel tentativo di comunicare qualcosa che resta però sempre un passo al di qua dell’esprimibile. Forse il merito principale del romanzo sta proprio nel modo in cui affronta l’impossibilità di consegnare una forma linguistica stabile al trauma che si nasconde nella trama, nel suo mettere in scena un lungo, polifonico esercizio di rimozione.

Nel racconto mistificato delle voci narranti c’è il tentativo di riprendere possesso di un passato segnato dagli abusi che troppo spesso definiscono i rapporti personali nel mondo apparentemente dorato dell’arte, unito al desiderio di riscrivere la propria storia come autrici e non come comparse alla mercé del brillante drammaturgo di turno.

A malapena nascosta tra le righe di Esercizi di fiducia, e proprio per questo in bella vista, c’è una denuncia delle violenze quotidiane che costellano la vita di ogni donna, presentate come elemento sistemico colpevolmente taciuto, o meglio, praticamente impossibile da comunicare laddove la connivenza è la norma e l’aggressione un rito di passaggio. In questo senso, la fumosità del romanzo e il suo vago posizionamento sulla mappa servono a sottolineare l’universalità della prevaricazione, e il sadismo spesso incomprensibile dell’ambiente artistico così come Choi lo descrive è la sineddoche di una società in cui l’ostentazione del merito nasconde un mondo di prede e predatori.