Suona di nuovo l’allarme per le terapie intensive saturate dalla pandemia? Secondo gli ultimi dati dell’Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali (Agenas), i malati di Covid-19 occupano il 12% dei posti letto in terapia intensiva.

A CHI NON MASTICA dati sanitari può sembrare un dato poco preoccupante. Quella percentuale, tuttavia, non significa che il restante 88% dei reparti sia vuoto e a disposizione. Oltre a occuparsi dei pazienti Covid, i reparti di rianimazione devono accogliere i pazienti vittime di attacchi cardiaci, ictus, incidenti stradali e altri traumi gravi. Più quelli che escono da interventi chirurgici particolarmente impegnativi – in primis i trapianti – e che necessitano di sorveglianza medica ventiquattr’ore al giorno. In base agli standard fissati dal governo nel 2015 per programmare la disponibilità di posti letto e l’attività chirurgica, queste emergenze dovevano generare «un utilizzo medio tra l’80 e il 90%» di ogni reparto, in era pre-Covid.

Questo basta a far capire che il 12% in molti casi è già sufficiente a mangiarsi il restante margine di manovra. È vero che i posti letto sono stati aumentati dalle regioni, e sulla carta oggi sono 9 mila contro il 5 mila anteriori alla pandemia. Ma il personale medico e infermieristico è aumentato in una percentuale molto inferiore, e secondo il presidente dell’associazione anestesisti e rianimatori Alessandro Vergallo l’assistenza è garantita in modo strutturale a un numero inferiore a quello dichiarato.

Come ogni media, peraltro, quel 12% nasconde situazioni diverse tra loro. Mentre ci sono quattro regioni con un tasso di occupazione delle terapie intensive sotto il 5% (Basilicata, Campania, Puglia), Marche e provincia di Trento superano il 20%. Se si tiene conto anche del tasso di occupazione dei reparti ordinari per i pazienti non gravi, in cui secondo il ministero i pazienti Covid non devono superare il 15% del totale, attualmente ci sono 10 regioni con numeri da zona gialla. Alle sette già classificate in giallo, è assai probabile che dalla prossima settimana si aggiungeranno anche Lombardia, Lazio e Piemonte.

OLTRE A SEGNARE un peggioramento del quadro pandemico, questi numeri si faranno sentire anche sul resto della popolazione. Per diminuire la pressione sui reparti, gli ospedali non hanno altra scelta che rimandare gli interventi chirurgici programmati. Con un danno per i pazienti attuali e tempi di attesa più lunghi per quelli futuri. «La coperta è ancora più corta di quanto dicano i numeri» spiega di nuovo Vergallo al manifesto. «I reparti di rianimazione oggi sono divisi tra aree Covid e non Covid che non comunicano tra loro perché i percorsi devono essere separati. In un periodo come quello attuale, in cui ci si attende un aumento dei ricoveri, gli ospedali tendono a concentrare la riserva di posti letto disponibili nei reparti Covid. In questo modo, quella dei reparti non-Covid diminuisce ulteriormente».

L’ultimo report dell’Alta scuola di economia e management dei sistemi sanitari dell’università cattolica di Roma conferma che i reparti Covid sono occupati al massimo al 52% (in Friuli-Venezia Giulia) e in gran parte delle regioni oltre il 70% dei posti riservati al Covid sono liberi, in attesa dell’ondata della variante Omicron.

LA BUONA NOTIZIA è che i ricoveri non crescono più in modo proporzionale ai casi sintomatici, com’è avvenuto praticamente per tutta la durata della pandemia. Il dato tuttavia è piuttosto evidente: la popolazione degli “attualmente positivi” è triplicata nell’ultimo mese, mentre quella degli ospedalizzati non è nemmeno raddoppiata. Dalla fine di ottobre, secondo i report della cabina di regia Iss/ministero della salute, il tasso di crescita dei ricoveri è sistematicamente inferiore a quello dei casi sintomatici, mentre in precedenza i due indici erano praticamente sovrapponibili.

Il fenomeno potrebbe spiegarsi con un aumento dei contagi tra i vaccinati dovuta al calo dell’immunità: grazie ai vaccini, si tratta di casi positivi che molto raramente sviluppano sintomi gravi. Se così fosse, le dosi booster dovrebbero ristabilire le proporzioni precedenti. Ma anche per gli esperti della fondazione Bruno Kessler di Trento, dove vengono elaborati i dati epidemiologici per conto dell’Iss, rimane solo un’ipotesi.