Super Mario Odissey, appena uscito per Nintendo Switch, non è solo un videogioco ma tanti, una favolosa “legione” che restituisce tuttavia l’idea di un’organica unicità attraverso le emozioni e le scoperte di un lungo viaggio rivelatore della grandezza creativa e ricreativa possibile nel videogame quando questo non è inteso solo come prodotto ma arte. Si tratta inoltre di un gioco universale, pensato per tutti, completabile e godibile anche da un bambino alla sua prima escursione nel virtuale ma pensato per offrire, durante il suo smisurato epilogo, delle sfide persino diaboliche al giocatore più smaliziato senza mai frustrarlo e stancarlo con meccaniche imprecise, con la ripetizione pedissequa, con la noia del banale.

L’odissea comincia con il consueto rapimento della principessa Peach ma questa volta i toni sono più tragici, sebbene nei limiti della comicità esplicita del titolo, ed è quasi con disperazione che vediamo l’arci-nemico Bowser sconfiggere Mario e stracciargli il cappello, un evento simbolico dalla portata che annichilisce: in quel momento “terribile” intravediamo non solo la fine dell’ometto ma quella del videogioco o, ancora oltre, di tutta l’infanzia che il videogiocatore ancora capace di sognare mantiene nel suo animo fanciullesco. Ma non è che un nuovo, travolgente inizio, una risurrezione, poiché Mario precipita in un sobrio, triste mondo polveroso e nebbioso abitato da “fantasmini” cappelluti. Siamo nel Borgo Tuba e uno di questi copricapo senzienti offrirà il proprio aiuto a Mario, metamorfizzandosi nel suo nuovo cappello, conservando solo due occhietti sopra la tesa per dimostrare la sua esistenza. Cappy, così si chiama il berretto, non è solo un’aggiunta estetica al look di Mario ma determina le nuove dinamiche ludiche di Odissey, poiché tramite questo l’ex-idraulico può possedere oggetti e creature dopo averle colpite con un lancio e trasformarsi in una versione “mariesca” di questi, con effetti funzionali in maniera determinante e spesso esilaranti.

Il Regno dei Cappelli non è che il primo dei mondi che visiteremo durante l’odissea a bordo dell’Odissey, una nave-mongolfiera magica alimentata dall’energia elettro-mistica di eteree lune. Ogni mondo possiede la sua originalità e sebbene nessuno sia mai troppo vasto è invece denso, ricchissimo di segreti: il verdeggiante e collinare Regno delle Cascate con i suoi miracoli fluviali e la statuaria presenza di antichi fossili di colossi preistorici, un deserto congelato sulla cui sabbia sorgono antichi ruderi, le vestigia di civiltà sommerse ancora palpitanti di vita, coste tropicali bagnate da mari più celesti del cielo, selve ammollate dall’oblio o rigogliose per gli interventi ecologici di robot giardinieri, tetre rovine abitate da draghi neri che rimandano al fantasy oscuro di Dark Souls, nipponiche fortezze inespugnabili nello stile marziale dei samurai, terre che sono fantasie gastronomiche e culinarie, le aride lande lunari… Uno dei mondi più riusciti e splendenti nel paradosso tra la presenza fantastica di Mario e il realismo della sua rappresentazione è la città di New Donk City, mimesi e sintesi cartoonistica di New York con grattacieli e viali percorsi dalla folla e dai taxi.

In ogni mondo, rappresentato in tre dimensioni, sono integrati nel tessuto architettonico, vegetale e geologico segmenti bidimensionali nella forma di affreschi, murales o antiche decorazioni; quando Mario vi penetra il gioco si trasforma, riportandoci all’origine a 8 bit e 2d della saga, addirittura prima, quando egli non aveva ancora un nome, ai tempi di Donkey Kong. L’identità di Mario è comunque sempre in gioco perché egli può cambiare abiti a piacimento e talvolta secondo le necessità del gioco, diventando nel tempo un esploratore coloniale, un medico, un cuoco, un cow-boy, un mariachi, un astronauta, un bagnante, un re. Ci sono decine di vestiti, persino uno da sposa. La metamorfosi è il fulcro di Odissey perché grazie ai poteri di Cappy le conseguenti trasformazioni di Mario mutano sempre la maniera e lo stile di giocare, senza tuttavia nulla togliere ai leggendari salti dell’ex-idraulico, ancora fondamentali. Possiamo diventare feroci tirannosauri e infrangere le rocce al nostro incedere, tozzi bruchi con la facoltà di allungarsi di una fisarmonica, sfere di fuoco che rimbalzano sulla lava, esili ranocchie, pallottole giganti, tartarughe giocatrici di rugby, uccelli-ninja e tante altre forme utili per proseguire nell’avventura.

Durante l’epopea per impedire a Bowser di sposare Peach l’obiettivo sarà quello di raccogliere le lune necessarie per potenziare la Odissey ma è dopo un finale davvero lirico con la sua poesia quasi amara, che il gioco dimostra tutta la sua vastità proponendo una colossale mole di sfide e avventure, facendoci inoltre viaggiare verso luoghi nuovi e misteriosi. Ci sono 999 lune da scovare in tutto il gioco, chi scrive ad oggi ne ha recuperate 850 in ottanta ore e spera di arrivare a totalizzare il numero complessivo; ma ce ne sono alcune così ostiche da ottenere che fanno venire i brividi, come quella che si vince realizzando 100 salti con la corda a New Donk City o alcune gare di velocità contro un’ipercinetica tartaruga d’oro. Considerata tuttavia la perfezione chirurgica del sistema di controllo il fallimento è solo responsabilità del giocatore, mai del gioco e con l’allenamento e il coraggio tutto diventa possibile.

Super Mario Odissey celebra il videogioco come fonte di gioia ludica, oltre che la storia quasi quarantennale del baffuto ex-idraulico inventato da Shigeru Miyamoto, citandola con amore, proiettandola nel futuro e stravolgendola con continue invenzioni e variazioni in un’enciclopedia della meraviglia di cui ogni pagina è una sorpresa, perché in pochi minuti di questa Odissea ci sono più idee e visioni che in tante produzioni milionarie studiate per rivelare la propria bellezza, o bruttezza, su un costoso schermo a 4K.