Nero assoluto e la voce fuoricampo del regista che propone a ognuna di loro di testimoniare se stesse e la propria massima presa di coscienza nella minore età, compiendo un gesto finalmente non più indotto, minacciato o forzato, ma pienamente volontario: entrare nella stanza, accendere la macchina da presa e rivolgersi all’uomo che hanno ucciso – sia il padre, il cognato, il marito -, per dire il profondo dolor eche provano; oppure parlare alla madre, che il più delle volte è stata complice di quell’atto di rivolta a una atavica insostenibile sottomissione, ma anche al regista stesso, alla società iraniana, al mondo. Infine – accordo vuole – che quando ognuna lo sente, prema Off.

Sunless Shadows, ultima istanza dell’alta ricerca documentaristica di Mehrdad Oskouei, malgrado il titolo che allude a ombre matte senza il complemento della luce del sole, è grado zero della metafora, è viaggio tra gli esiti più deflagranti e rimossi del patriarcato, in quel connubio di Stato e uso politico della religione, che ancora cerca di erodere la vita delle bambine delle ragazze e delle donne in Iran.
Per questo il film emerge con autorevolezza nel programma della XIº edizione del «Middle East Now – Cinema, art, food and culture», che si è svolto fino al 12 ottobre al Cinema La Compagnia di Firenze, sempre con la direzione di Lisa Chiari e Roberto Ruta.

«Il tuo amore mi feriva, non sapevi essere gentile», dice una ragazza rivolgendosi al padre. E una al marito: «Mi sono forzata a sposarti, avevo 12 anni, cercavo qualcuno che mi amasse per fuggire all’inferno della mia famiglia, ma tu eri peggio dei miei».

Pure, Sunless Shadows appare più toccante nei momenti altri dalla stanza del confronto vis-à-vis di cui sopra. Nell’interlocuzione tra spazi interni – la camera coi letti a castello e il grande tappeto in mezzo, il cortile dove ognuna si lava i panni, la tavola da pranzo, il giocare a campana, o a mimare le parole, o a intrattenere il bambino neonato di una di loro – e le mura del Centro Riabilitativo e correttivo per ragazze, tra i ghirigori del filo spinato, la torretta del secondino e i canti in lontananza che annunciano la preghiera.

Perché sei dentro? Ti arrabbi facilmente? Volevi sposarti? Cosa porta una persona al punto di uccidere il proprio padre? Quando l’hai ucciso pensavi al dopo? Da quando sei fuori qualcuno dei tuoi sogni si è realizzato?

Le domande del regista sono come sassi nell’acqua, i cui cerchi si allargano all’infinito. Le ragazze lo chiamano zio Mehrdad, lui non compare mai fisicamente. E i momenti che più prorompono sono quelli in cui la macchina da presa si sottrae per lasciare spazio a loro, che «giocano» a intervistarsi con un microfono improvvisato. Allora affiora l’intrico delle contraddizioni, delle consapevolezze parziali. Il vetusto disco rotto che siano le donne a provocare la violenza maschile, anche se poi la conclusione comune è netta: Non sono da condannare io che l’ho ucciso, ma la società che a quell’età mi ha costretto a sposarlo.

Altrove il Centro propone loro un rilassamento: allora distese l’una a fianco all’altra, le teste avvolte nell’hijab, sono come fiori. A occhi chiusi, viene loro detto di immaginare di spaccare con un’accetta il globo nero dei pensieri negativi (la depressione serpeggia e sono diffusi i tentativi di suicidio, anche tra chi esce). Ma per ritrovare la luce del sole dietro l’ombra non serve l’ipocrisia addolcita e dissociata di una società che vorrebbe inchiodarti tra due oscurità senza spiragli.