Crisi ambientale, lotta per il diritto all’aborto, violenza domestica, discriminazione di razza, abuso sessuale, omofobia, l’ossessione americana per le pistole, il genocidio dei nativi d’America. In quarant’anni di storia, il Sundance ha fatto di questi temi una parte integrante del suo Dna. Con il passare del tempo, la forza d’urto della «prima volta», la sperimentazione formale e narrativa, l’incontro tra marginalità dell’esperienza personale e arditezza della visione artistica sono confluiti, sempre di più, in un flusso unificato di valori comuni, militanza politica culturale e uniformità estetica che comprimono i film in una formula.

«COSTRETTI» come i volti dei programmers e degli autori di quest’edizione 2022 online, che nelle intro preregistrate sono ridotti a francobolli, circondati da un’infelice sigla-cartoon turchese con palle rosse in movimento. Così, invece della vitalità sovversiva dark di Gregg Araki si hanno film crudeli e patinati come Fresh (yuppie cannibale che degusta, pezzo per pezzo, giovani donne etnicamente diverse imprigionate in una villa, e di cui distribuisce le carni per corrispondenza a una comunità di amatori come lui). Invece dell’avventurosa sensibilità queer di Todd Haynes e della produttrice Christine Vachon, la seconda regia della drammaturga Phillys Nagy (sceneggiatrice di Carol) è poco più di un telefilm, nobilitato dalla presenza di Sigourney Weaver, sullo storico collettivo femminista Jane, che praticava aborti sicuri alle donne di Chicago, prima della legalizzazione. Così gli incubi eversivi di Jordan Peele si attutiscono in piccole commedie dark come Emergency, notte d’incubo di due studenti black e un latino dopo che una teenager bianca, sconosciuta e priva di sensi, si materializza sul pavimento di casa. Così, invece del melodramma famigliare vertiginosamente aperto di Soderbergh, Haynes o Harmony Korine, c’è un film come quello di Jesse Eisenberg, When You Finish Saving the World, che mortifica Julianne Moore nel ruolo di una madre che non capisce il figlio rock star sui social media perché è inaridita dalla sofferenza che vede tutti i giorni nel rifugio per donne abusate che ha fondato.

DALLA FRUSTRANTE programmaticità di queste equazioni narrativo-culturali, le immagini fantastiche del documentario Fire of Love esplodono come i crateri filmati con amore dai vulcanologi alsaziani Katia e Maurice Krafft – una vita dedicata allo studio delle viscere della terra, le cui manifestazioni, catturate dai loro obbiettivi, hanno il potere ipnotico, complesso e terribile di una personalità. Per conservare i loro pellegrinaggi, di eruzione in eruzione, prima di venire inghiottiti dalla micidiale colata piroclastica emessa del monte Unzen nel giugno 1991, i Kraft trasformavano le immagini raccolte in film (Werner Herzog, un grande fan, rendeva loro omaggio in Into the Inferno). Sono immagini straordinarie, a cui la regista del documentario, Sara Dosa (The Seer and the Unseen), affida quasi tutto il suo doc e che, fortunatamente, come vulcani, risultano indomabili dalla narrazione fuori campo un po’ piatta, enunciata da Miranda July.

ALLA FORZA del found footage sono affidati anche altri documentari in programma quest’anno al festival, tra cui Riotsville di Sierra Pettengill, che ricostruisce l’escalation della polarizzazione che sta spezzando gli Usa a partire dal formidabile girato dei filmini d’addestramento prodotti dall’esercito per istruire i dipartimenti di polizia delle grandi città su come far fronte alle sommosse, come se fossero quelle dei ’60. I soldati si trasformano in attori (interpretando sia poliziotti che manifestanti) nelle ricreazioni drammatiche degli scontri, sullo sfondo di una generica main street anni sessanta, ricostruita come quelle dei western. Ancora, la documentarista newyorkese Christine Choy porta con sé il girato di un film mai finito su Tienanmen quando va a incontrare alcuni dimostranti superstiti a Parigi, Taiwan e in Maryland in The Exiles di Violet Columbus e Ben Klein.