Colori sgargianti, look retro, donne bellissime, produzione francese per un melo/noir di provincia americana che lavora sulle convenzioni del genere filmico e sull’inafferrabilità del desiderio sessuale. È White Bird in a Blizzard di Gregg Araki dal romanzo omonimo di Laura Kasische, presentato nella sezione premiere del festival dove il regista di Los Angeles era arrivato per la prima volta nel ’92, con The Living End. Rispetto all’Araki militante queer degli esordi, a quello fiammeggiante di Nowhere e The Doom Generation, e a quello comico/fuso di Smiley Face, pur lavorando su temi molto suoi, qui il regista sembra patire un po’ la gabbia di una trama più meccanica di quelle su cui ama «riffare».

Douglas Sirk, e sicuramente anche Sirk rivisto da Todd Haynes in Lontano dal Paradiso, hanno ispirato Araki alle prese con una storia raccontata dal punto di vista di una ragazzina.

Kat Connors (Shailene Woodley) conduce una normale esistenza suburban, che condivide con un fidanzato vicino di casa, una classica coppia di amici outsiders (lei grassissima e nera, lui piccolo e gay), una madre ancora giovane e bella ma depressa da un quotidiano mediocre che detesta (Eva Green) e un padre affidabile e insignificante (Christopher Meloni). Décor stilizzato, regia minimal, gialli, verdi e rossi che strillano, conflitti tra mamma e figlia, i muscoli sexy del vicino di casa che taglia l’erba e la casalinga frustrata Eva Green che ogni tanto evoca umori gotici da Barbara Steele.

Tutto cambia in casa Connors quando, un giorno, improvvisamente, la signora sparisce nel nulla e senza lasciare spiegazioni. Kat continua a sognare sua madre in fittissime bufere di neve (attenzione, è una chiave letterale del mistero), ma il detective incaricato delle indagini (con cui la precoce diciottenne intesse una storia) non arriva a concludere granché. Kat parte per il college (Berkeley) convinta che sua madre l’abbia abbandonata per sempre. Riuscirà a guardare quanto è successo da un punto di vista diverso solo quando tornerà a casa per qualche giorno di vacanza….

Se Araki è un regista troppo arrivato per essere messo in concorso al Sundance, tra gli inspiegabili esclusi dalla competizione di quest’anno, dopo Listen Up Philip, c’è la commedia on the road Land-Ho!, acquistata dalla Sony Classics poco dopo la prima proiezione qui al festival, dove fa parte della sezione Next. Il film è frutto di una collaborazione a quattro mani tra i registi/sceneggiatori Martha Stephens (del Kentucky, ha alle spalle due lunghi, Passenger Pigeons e Pilgrim Song) e Aaron Katz (di Portland, il suo terzo film, Cold Weather è stato un successo nei festival internazionali). Li accomunano un certo minimalismo, un gusto per la narrazione frammentata e la North Carolina School of the Arts, che hanno frequentato pochi anni dopo il loro produttore esecutivo, David Gordon Green. Sono effettivamente molto «greeniani» (nello spirito di Prince Avalanche, visto qui l’anno scorso) il calore e il tono off di questo duetto tra anziani signori in viaggio per l’Islanda , il paese più cinematograficamente gettonato dell’anno, qui molto meno monumentale che in The Adventures of Walter Mitty.

Mitch (Earl Lynn Nelson, un chirurgo e il cugino di Martha Stephens) è un medico recentemente pensionato che decide di tirare su di morale il cognato Colin (l’attore australiano Paul Eenhoorn), abbandonato dalla moglie, portandolo in viaggio premio a Reykjavik. Uno invadente e autoritario, l’altro schivo e più timido, i suoi sono una strana coppia su sfondi nordici che fanno pensare a Jarmush e Kaurismaki. Solo che invece della coolness depressa, e del milieu blue collar, il viaggio di Mitch e Colin si svolge in una sorta di tenera, buffa, euforia in cui volgarità, malumori e le delusioni che entrambi portanto dentro si stemperano a contatto del paesaggio di neve bianca e terra nerissima, delle distese umide e piatte, dei laghetti gonfi di vapore candido, di ragazze troppo giovani per loro, e dei piatti di nouvelle cousine iperraffinata. Completamente assente, in questo film delicato e molto divertente (in cui per fortuna nessuno alla fine ha un male incurabile, si suicida o deve sposarsi e rinunciare per sempre a divertirsi), la temibile moda del bachelor party geriatrico alla Last Vegas.

Sempre fuori concorso, nella sezione New Frontier (poi nel Panorama di Berlino) è The Better Angels del californano A.J. Edwards, uno stretto collaboratore di Terrence Malick, che è stato montatore di Il nuovo mondo, e regista della seconda unità di Tree of Life, To the Wonder e dell’atteso prossimo film dell’autore texano, Tree of Cups. Grana visiva, stilemi, la combinazione tra una macchina in continuo, fluttuante, movimento e ripetuti «jump cuts», i primi piani fuori asse, l’occhio costentamente puntato verso l’altro, donne silenziose, sottomesse e angelicateersino tematicamente, The Better Angels è un catalogo della maniera e delle ossessioni malickiane, modulate, in sontuoso bianco e nero, su un duro quadro di vita famigliare nei boschi dell’Indiana. L’anno è il 1817, la famiglia è quella del futuro presidente Abraham Lincoln, qui un bambino taciturno e solitario. Jason Clarke, Diane Kruger e Brit Marling nel cast. E il fantasma di John Ford che aleggia tra i rami della foresta.