Rathlinn, la leggendaria isola nordirlandese nella quale tanta produzione letteraria e mitologica è stata ambientata, nel secondo romanzo di Bernie McGill, Le parole nell’aria, (Bollati Boringhieri, traduzione di Simona Garavelli, pp. 252, euro 17,50) vale assai più di un semplice scenario. Al riparo dai cliché e dai vezzi esotizzanti, il paesaggio che viene fuori dallo splendido ritratto di McGill esprime un genius loci ruvido e sospeso fra aura celtica e naturalismo.

Davvero pervasivo, lo spirito del luogo è qui in grado di sedurre gli stranieri quanto di ispirare alla comunità locale credenze e riti sociali, aspirazioni e l’angoscia di non realizzarle. La commistione tutta gaelica di spiritualismo panteista, concretezza contadina, religione cattolica e magia superstiziosa assume tratti affascinanti ma al limite della tossicità nella giovane protagonista, Nuala, una guaritrice che pratica i «rimedi» e vede fantasmi nei quali crede perlopiù di individuare presenze del passato.

Quando la sua famiglia emigra a Terranova, le viene chiesto il sacrificio di rimanere provvisoriamente a Rathlin, per badare ai nonni. Ma alla loro morte né lei né i parenti in Canada possono permettersi di pagare la traversata che li ricongiungerebbe. Le privazioni, la solitudine e un malcelato rancore spingono Nuala al matrimonio di comodo con un vecchio sarto, malgrado lo trovi sessualmente respingente e nonostante la presenza asfissiante di una cognata zitella, livorosa e morbosamente possessiva. Intanto, la quiete sull’isola è turbata dall’arrivo di una delegazione di ricercatori assoldati dal celebre Guglielmo Marconi. Obiettivo della missione è installare una stazione radio in cima al faro e sperimentare un «telegrafo senza fili», trasmettendo onde che permettano di comunicare con la terraferma. Nuala, che da sempre sente le voci di persone assenti, è incredula e irresistibilmente attratta da quegli uomini colti, sobri e rigorosi, capaci di inviare messaggi senza ali al di là del mare.

Da una prospettiva femminile che ricorda la scrittura di Jane Urquhart, specialmente nella caratterizzazione delle protagoniste e degli spazi geografici, l’incontro fra Nuala e uno scienziato italiano al seguito della missione rivela come persone apparentemente agli antipodi partecipino di predisposizioni comuni e di sensibilità insospettate, capaci di vincere le resistenze reciproche e avvicinare persino due soggetti così distanti.

Le grotte dell’isola assistono all’incantesimo di una passione che fa evaporare i confini fra scienza e intuizione, fra il sapere e il sentire. Tutto questo accade nei primi due terzi del romanzo, con esiti stilistici e narrativi considerevoli, salvo in un paio di riflessioni di Nuala sulle comunicazioni umane che sembrano suggerite da intuizioni così geniali riguardo a semiotica e teoria del linguaggio da risultare pericolosamente improbabili. Poi, dopo la morte misteriosa di uno dei protagonisti, il romanzo cambia di passo, il ritmo dell’azione accelera bruscamente e comincia a sommare morti, rivelazioni di segreti e la più classica delle agnizioni: quella fra un genitore e un figlio.
La conclusione arriva, così, quando l’intreccio si è fatto troppo fitto di eventi, e fatica a mostrarsi in continuità con il resto del libro, mentre alcuni degli sviluppi narrati sembrano poco plausibili, e sono veicolati da un’alternanza dei punti di vista che aspirano a costruire un coro di voci, ma lasciano a volte affiorare una sensazione di artificiosità.