Sull’Iraq ritorna lo spettro di Camp Bucca
Stato islamico e foreign fighters Migliaia di miliziani iracheni e stranieri nelle prigioni di Stato e dei servizi segreti. Che ora rischiano di diventare i nuovi centri della radicalizzazione. 20mila i foreign fighters, 8mila già condannati a morte o all’ergastolo.L’allarme delle ong: processi farsa e torture
Stato islamico e foreign fighters Migliaia di miliziani iracheni e stranieri nelle prigioni di Stato e dei servizi segreti. Che ora rischiano di diventare i nuovi centri della radicalizzazione. 20mila i foreign fighters, 8mila già condannati a morte o all’ergastolo.L’allarme delle ong: processi farsa e torture
Sono trascorsi cinque anni da quando lo Stato islamico prese Mosul, in Iraq, e Abu Bakr al Baghdadi annunciò la nascita del “califfato”. Cinque anni in cui milioni di iracheni sono finiti a vivere sotto il controllo amministrativo e militare di Daesh, intere città sono state rase al suolo e le istituzioni irachene hanno mostrato una volta di più di non essere in grado di garantire sicurezza e stabilità a un paese già collassato.
Nel dicembre 2017 l’allora premier iracheno Al-Abadi annunciava con malcelata soddisfazione la sconfitta dello Stato islamico, ma da allora con cadenza regolare cellule di Daesh fanno saltare in aria kamikaze imbottiti di esplosivo nel paese, a cominciare dalla capitale Baghdad.
Presente con il sangue, l’Isis lo è anche nelle insufficienti e già stracolme prigioni di Stato con decine di migliaia di miliziani già condannati a morte o in attesa di giudizio. Tra loro almeno 20mila foreign fighters che i paesi di origine non vogliono indietro.
Ma i rischi sono consistenti: processi farsa, pena di morte, evasioni e il pericolo concreto di ricreare un nuovo Camp Bucca, il famigerato centro di detenzione statunitense che durante l’invasione dell’Iraq divenne la culla di Daesh, il centro di organizzazione, reclutamento e radicalizzazione del futuro Stato islamico.
Qui era detenuto al Baghdadi, insieme ad altri otto futuri leader del “califfato”, tra cui colui che poi sarà chiamato alla gestione dei foreign fighters, Abu Qasim. Secondo le stime affidate nel decennio scorso al Washington Post dal capo di polizia Saad Abbas Mahmoud, il 90% dei detenuti rilasciati sarebbero tornati a combattere sotto la bandiera del jihad qaedista.
Eppure il rischio non sembra preoccupare i paesi di origine dei foreign fighters. Per una Gran Bretagna che ha revocato la cittadinanza a oltre 100 miliziani per non doversene prendere carico, c’è una Francia che sotto banco tenterebbe accordi con Baghdad, i miliziani francesi dietro le sbarre in cambio di sostegno economico e militare.
Ne abbiamo parlato con Salah al Nasrawi, analista e giornalista iracheno.
Quanti foreign fighters dell’Isis sono detenuti in Iraq? E quanti loro familiari, mogli e figli?
Le autorità irachene non hanno reso noto il numero esatto di miliziani dell’Isis né rivelato le loro nazionalità e il loro status. Numeri ufficiosi forniti da diverse fonti, compresi i gruppi per i diritti umani, parlano di circa 20mila miliziani, compresi 8mila già condannati a morte o alla prigione. La maggior parte sono detenuti in campi o in carceri in giro per l’Iraq, altri sono detenuti dagli apparati dell’intelligence o della polizia federale nei loro centri di detenzione in attesa di interrogatorio. Si ritiene che centinaia di miliziani siano sotto il controllo del Krg (governo del Kurdistan iracheno), molti in campi a Dohuk, Erbil e Suleymaniya. Mancano numeri precisi sulle donne straniere e i minori.
I due miliardi a miliziano che Baghdad avrebbe chiesto ai paesi di origine per gestire i foreign fighters è una provocazione o un’idea concreta?
Negli ultimi mesi l’Iraq ha detto di aver ricevuto decine di foreign fighters e di aver intenzione di portarli a giudizio. Il 13 febbraio l’agenzia irachena Nas ha riportato di preparativi per avviare il processo, in un campo militare vicino Baghdad, di 328 miliziani dell’Isis di diverse nazionalità, consegnati dalle forze della coalizione. Diversi media hanno citato la presunta offerta dell’Iraq, ovvero “accogliere” questi miliziani – tra cui migliaia di stranieri, uomini, donne e bambini – e giudicarli in cambio di denaro. Alcuni articoli parlano di una richiesta di 10 miliardi, altri di un miliardo l’anno. Non ci sono dichiarazioni ufficiali da parte del governo di Baghdad ma diversi parlamentari hanno protestato e chiesto all’esecutivo di chiarire. In una conferenza stampa del 13 aprile alcuni deputati hanno chiesto al governo di rifiutare la richiesta di ospitare in Iraq i miliziani stranieri.
Media e organizzazioni per i diritti umani parlano di processi di massa, udienze di pochi minuti che terminano molto spesso con la pena di morte, anche per le donne.
Le corti irachene sono state spesso nel mirino dei gruppi per i diritti umani per la mancata garanzia di giustizia e di processi equi. In molti casi, il processo non dura che pochi minuti e gli imputati sono condannati a morte sulla base di confessioni estorte sotto tortura. Simili processi rendono difficile per i governi europei affidare all’Iraq propri cittadini, senza reali garanzie.
L’Iraq ha una strategia nel trattare questo fenomeno?
L’Iraq manca di una strategia nazionale per affrontare il problema sul piano legale, politico e di sicurezza. Finora non è riuscito a implementare la risoluzione Onu 2379 del 2017 che avrebbe dovuto aiutare Baghdad a gestire il fenomeno con sostegno nelle indagini e raccolta delle prove per i crimini commessi dall’Isis. L’Iraq dovrebbe lavorare all’ampliamento dello spazio d’azione del team Onu nato da quella risoluzione. Ma sfortunatamente le autorità irachene finora hanno fallito nel costringere il Consiglio di Sicurezza ad agire per sviluppare un meccanismo internazionale che giudichi i combattenti Isis e dia giustizia alle loro vittime. La scorsa settimana il governo iracheno ha nominato Salama Al-Khafaji rappresentante dell’Iraq nel team Onu. Al Khafaji è una dentista ed ex membro del Consiglio governativo creato dagli Stati uniti dopo l’invasione del 2003. Non ha esperienza legale o investigativa.
Dunque Baghdad non è in grado di gestire tale situazione.
L’Iraq non è il posto migliore in cui detenere i miliziani dell’Isis e processarli, è mal equipaggiato per la detenzione di questi terroristi: dal 2003 le evasioni sono state la routine, nel 2014 circa 4mila terroristi sono fuggiti da tre prigioni per poi unirsi all’Isis in Iraq e Siria. La corruzione e l’aiuto da parte dei secondini sono stati indicati come cause della fuga: se si può pagare per tenere dei terroristi in prigione, si può anche pagare per farli scappare. Lo scorso dicembre 21 miliziani Isis sono fuggiti dal campo di detenzione di Susa, a Suleymaniya. Funzionari del governo curdo hanno poi fatto sapere che 15 di loro sono stati arrestati mentre cercavano di uscire dal Kurdistan iracheno.
Krg e governo federale si coordinano nella gestione dei detenuti?
Il coordinamento è minimo tra Krg e governo di Baghdad, non esiste una politica nazionale. Le due parti tentano solo di massimizzare i benefici e minimizzare i costi.
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