L’avrebbero aspettata sulla spiaggia: davanti al suo mare, col tramonto racchiuso nell’entroterra e l’aria quieta del pomeriggio. I suoi libri sarebbero stati lì, sparsi sulla sabbia – aperti – come fiori; lettore danzante e felice, il vento le avrebbe accarezzate, baciate. Lei sarebbe arrivata? Nell’attesa avrebbero raggomitolato gli orli degli abiti, assaggiato coi piedi l’acqua sottile della battigia. Loro. Quasi tutte donne: lettrici e/o scrittrici, giornaliste, studiose, registe, siciliane e non, nel settembre 2012 avrebbero trascorso tre giorni a Catania per «un viaggio sentimentale e letterario nei luoghi di Goliarda Sapienza» – progetto pensato da Pina Mandolfo, in collaborazione con la Società Italiana delle Letterate.

L’aura di quegli istanti, dedicati a una scrittrice contemplata, anche internazionalmente, nel suo reale splendore solo post mortem, è diventata  un film, L’Antigattopardo, Catania racconta Goliarda Sapienza, di Alessandro Aiello e Giuseppe di Maio – al Florence Queer festival oggi.
« Catania! Catania! Guarda quanto è bella, Modesta, guarda!». Grida così ne L’arte della gioia Beatrice all’amica, memorabile guida del romanzo, alla vista della loro città, la stessa in cui Sapienza era nata nel 1924. Via Crociferi, scalinata Alessi, Piazza Duomo, piazza Università, il Museo della Marionettistica di Nino Insanguine, la Civita. Mentre le donne seguono tra vicoli e letture Egle Doria, pulsante attrice, voce di Goliarda (anche la scrittrice lo era stata: tu sei la migliore, le aveva scritto Visconti).

«L’arte … come romanzo che insegna a desiderare … Che dissolve lo stereotipo siciliano e italiano: possibile mutare profondamente il proprio destino (da qui il neologismo del titolo, ricamato da Pinella Leocata)… Rappresenta tutte le donne del 900… Che attraversa con una autonomia contro ogni ‘ismo’… Modesta è tutto quello che lei avrebbe voluto essere …». Modesta, con i suoi sinceri amori etero e lesbo; e ancora: Il filo di mezzogiorno, Università di Rebibbia, Io Jean Gabin. Una scrittura che osa esistere, la sua, «organica, cardiaca … l’editoria italiana non era pronta … scriveva accovacciata sul foglio». Hanno detto questo e tanto altro, le voci intanto si infervorano nella ricerca di lei.

E infine per sé, per loro, per noi, appare: abito di chiffon verde smeraldo, occhialoni da sole, sigaretta tra le dita e la sua immagine che si allontana. Un foulard rosso intorno al viso, da liberare al vento, su quella spiaggia, su quel mare.

Dal mondo della letteratura e della vita, contigui come i piedi di un acrobata sul filo, muove anche Opium di Arielle Dombasle. Il mood rutilante della Parigi intellettuale dei primi anni ‘20 (Tzara, Ray, Breton, Sachs …), il caleidoscopio di Dada, l’amore tra l’artista scrittore, disegnatore, regista e drammaturgo, già icona idolatrata e odiata.
Il film, che si immerge con libertà nella biografia di Jean Cocteau, in particolare negli anni della sua relazione con Radiguet, e in quelli successivi alla morte di quest’ultimo (nel ‘23 a 20 anni), miscela bagliori e ombre. Bianco e nero e colore, disegno e animazione, ricreati cinegiornali d’epoca, musical e teatro, in un andirivieni di ricordi tra il tempo inafferrabile dell’amore e quello oppiaceo dell’assenza dell’amato («Ogni mattina tremo, muoio e ricomincio»).

«Dotato per la sofferenza», Cocteau si arrenderà alla clinica pur credendo che: «la disintossicazione per un oppiomane è come dire a Tristano, uccidi Isotta». In una intervista ai Cahiers paragonerà Le sang d’un poète, «al gesto di un uomo che nel dormiveglia sistema i ceppi nel camino». Uno spirito che, con un ordito onirico e raffinato, Opium coglie, sebbene, manchi al film quel fuoco che il poeta sapeva percepire, toccare.