A terra, c’è un morbido tappeto di foglie color ruggine. Il vento autunnale le scompiglia, guidandole in un vortice intorno alle rovine antiche, come fossero animate da soffi di fantasmi. Grandi uccelli rapaci attraversano il cielo terso: volteggiano verso le rupi del Tomaros che, da parte sua, buca le nuvole svettando per duemila metri.
Era qui, in questa valle incastonata fra le montagne, adagiata nel cuore della Molossia e la Tesprozia, abitata fin dall’età del bronzo da belve e umani in cerca di riparo nelle numerose caverne, che i «mortali» potevano sperimentare un contatto stregato con gli dèi. Lo facevano dai tempi remoti, dall’età pelasgica come riporta Erodoto, consultando oracoli abituati a dormire sulla nuda terra, scalzi, per fondersi meglio con il mondo di sotto e quello di sopra. A volte, si riposavano all’ombra di una quercia, captando comunque i suoni del fruscìo di Eolo tra le foglie.

IN CERCA DI FUTURO
Oggi, a Dodona, antichissimo centro politico, culturale e religioso alla periferia dell’Epiro, che visse la sua epoca d’oro nel III secolo a.C nel nome di re Pirro (fu devastato dagli Etoli, ricostruito da Filippo V il Macedone e poi da Augusto, innamoratosi del suo sbalorditivo teatro che ospitava 70mila spettatori), la quercia c’è ancora, ripiantata nel bel mezzo di quello che fu il tempio di Zeus, luogo sacro dove i pellegrini si recavano per interrogare il loro incerto futuro. Le loro domande, testimonianze della fragile impermanenza umana, sono giunte fino a noi in forma di piccoli fogli di piombo con incisi desideri, preoccupazioni e sogni d’amore. Si possono leggere, non senza emozione, nel Museo archeologico di Ioannina, imperniato su una coerente idea intorno alla conservazione della memoria: vi sono custoditi i reperti trovati nella regione, provenienti da siti vicini, tutti legati da una storia dalle molte ramificazioni ma con un tronco comune; girovagando fra le sue sale, si respira l’atmosfera del luogo e si ripercorre a ritroso la storia degli scavi, quel profondo (e anche un po’ miracoloso) tuffarsi in tempi altrui, «scortati» dalla cura e dal rispetto per gli antenati.
A Dodona, ogni domanda veniva consegnata all’oracolo (all’inizio solo di sesso maschile, poi venne il tempo delle sacerdotesse di Dione) che quasi sempre oralmente elargiva risposte e speranze, spesso in modo laconico con parere positivo o negativo. «Avrò altra prole oltre ai figli già esistenti?», «Giungerò sano e salvo a Creta, veleggiando?», «Potrò trovare una seconda moglie?»: quesiti universali, che scandivano il percorso di esistenze semplici, radicate nelle loro tradizioni ed eredità famigliari. Anche l’eroe Achille entrò in quella cittadella sacra per conoscere gli esiti della guerra (Iliade, libro XVI) e rimase colpito dai profeti «dai piedi sporchi», affondati nell’umida terra. Una storia questa di Dodona, che ripercorse anche Nietzsche nelle sue lezioni che tenne tra il 1875 e il 1878 a Basilea (raccolte in Il servizio divino dei greci, Adelphi).
Ma l’Epiro, vasta regione della Grecia tra le più povere, con un territorio per il 75 % attraversato da catene montuose, meno di 400mila residenti, un passato e un presente dediti alla pastorizia (qui, la produzione di una delle migliori qualità di feta e anche del metzovone, formaggio affumicato) e una rete grandiosa di acque, fiumi, lagune, laghi e, infine, il mar Ionio nasconde nelle sue viscere anche un’altra sede oracolare, fra le più misteriose mai esistite.

Vicino all’estuario del fiume Acheronte, lì dove le acque infernali raccontate da Omero e Dante scompaiono in un andamento carsico e dove Saffo sognava di veder fiorire il loto, si erge il Nekromanteion, santuario che la leggenda – e anche l’archeologo Sotirios Dakaris nel 1958 – identificò come una porta dell’Ade, luogo di prodigi in cui poter sperimentare la pericolosa liaison tra i vivi e i morti. Quella collina di brume e di soli oscurati (la collina di Efira, in Tesprozia, vicino al lago Acherusia) accolse Ulisse quando vi si recò per interrogare il cieco Tiresia sulla sua sorte, come leggiamo nel canto XI dell’Odissea: «O di Laerte figlio divino, scaltrissimo Ulisse, or come mai, sventurato, lasciata la luce del sole, giunto sei qui, per vedere la trista contrada dei morti?». L’accesso nel regno degli inferi era però cosa per iniziati (rigorosamente maschi) e richiedeva un lungo periodo di training psico-fisico. Bisognava prima purificarsi con una dieta allucinogena a base di semi di fave, poi disorientarsi in un labirinto, infine si poteva arrivare nella sala delle apparizioni per l’incontro anelato. Qui, con un macchinario speciale gli indovini proiettavano ombre e ai viandanti, già deprivati sensoriali, riempivano la testa di voci scaturite dall’aldilà.

Nei sotterranei del Nekromanteion

UNA ROTTA CULTURALE
Il Nekromanteion era una specie di set della morte, dove andava in scena la tragedia degli affetti perduti e la nostalgia struggente del passato che sbiadisce nel ricordo. Oggi c’è un artista che ne ha creato uno di simile potenza sentimentale, pur se privo di echi mitologici: è il francese Christian Boltanski, con la sua isola giapponese di Teshima, dove ha trasferito un archivio dei battiti del cuore registrati nel tempo. Le persone vi giungono in pellegrinaggio per ascoltare, ancora una volta, il «ritmo vitale» di chi non c’è più.
Cultural Route of the Ancient Theaters of Epirus è l’ambizioso progetto lanciato in nome di uno sviluppo sostenibile e integrato del territorio greco, nato grazie alle sinergie di più istituzioni pubbliche, alcuni donors e con il coordinamento dell’associazione no-profit Diazoma. Prevede l’unione di quattro regioni e comprende cinque siti archeologici (Dodona, Nicopoli, Cassope, Ambracia-Arta, Ghitana), otto antichi luoghi per lo spettacolo e due strade come l’Ignatia – la via commerciale che da Roma conduceva a Costantinopoli – e la recentissima Ionia. Quest’ultima, inaugurata nel 2017 da Tsipras, permette spostamenti veloci dal settentrione verso il sud dell’Epiro, abbattendo drasticamente i tempi di percorrenza.
È un viaggio avventuroso quello della «Cultural Route», lungo 344 chilometri e moltiplicato per 2300 anni di storia, che affonda le sue radici in un’alba dell’«era ellenica». Un budget di 37 milioni di euro per partire – tra risorse pubbliche, sponsor e in parte finanziamenti europei – ha autorizzato la ripresa dei lavori di restauro e di scavi là dove erano stati lasciati, dopo la tragica crisi economica. L’obiettivo è di rendere appetibile in ogni stagione dell’anno l’Epiro, oggi conosciuto soprattutto per il suo porto Igoumenitsa e per la cittadina balneare Parga, situata in una felice posizione geografica (una baia frastagliata, dalle alte scogliere) e circondata da coltivazioni di ulivi che furono importati dai veneziani, durante la loro dominazione.

Golfo di Ambracia

TERRA DI ACQUE
Provincia nordoccidentale, immaginata come territorio di passaggio da frettolosi turisti e attraversata solo lungo costa dove si susseguono distese di aranceti e limoneti, l’Epiro visse un drammatico spopolamento dopo la seconda guerra mondiale e oggi fruisce di un’economia di ritorno (chi è partito e ha fatto fortuna manda denaro per aiutare le imprese, le fondazioni e i progetti che nascono in loco). La sua attrattiva è il frutto di un ricetta che mescola più ingredienti: l’Epiro è l’aspro scrigno di una storia millenaria e insieme può vantare cornici naturali uniche. Come quel golfo di Amvrakikos, in realtà una sterminata laguna, paradiso per gli appassionati del bird watching.
Il paesaggio si presenta come una vasta rete di zone umide (è protetto dalla Convenzione di Ramsar del 1972) e dal 2008 è Parco nazionale. Accoglie lagune salmastre, lagune sabbiose, saline, canne, prati umidi, fango e altri ecosistemi.

Nei dintorni di questo luogo sospeso tra terra e mare, ad Azio Ottaviano, insieme al generale Agrippa, sconfisse Antonio e Cleopatra in una epica battaglia navale, decretando così la fine della guerra civile. Per ricordare quella vittoria, come testimonia anche il nome, fondò la città di Nicopoli i cui maestosi resti sono parte del progetto della «Cultural Route». Ma la sua nascita provocò l’abbandono di un altro centro più antico, Cassope, che sorgeva alle pendici del monte Zalongo fin dal IV secolo a.C. seguendo, nella sua planimetria, lo schema matematico ippodameo (come in Tesprozia, Ghitana). I suoi confini erano disegnati dalla natura: protetta dai monti alle spalle, affacciata sul Golfo da una posizione dominatrice, marcata a nord dallo scorrere dell’Acheronte e a est dal fiume Louros, era una città-stato altamente organizzata, centro amministrativo di più tribù epirote. Era abitata da una comunità che amava il buon vivere, e si svagava a teatro (ancora visibile, poteva ospitare circa 2500 spettatori su 8000/10mila di popolazione). Distrutta e ricostruita più volte, venne devastata dai Romani e poi via via abbandonata, quando anche gli ultimi superstiti furono costretti a trasferirsi nella nuova Nicopoli, dopo il 31 a.C. D’altronde, una città senza residenti, per Ottaviano, non avrebbe lasciato traccia nella storia.

SCHEDA

La città di Ambracia (oggi Arta) fu costruita sulle rive del fiume Arhatos e ai piedi del monte Perhanti sul sito dell’antica colonia corinzia di Amvrakia. Nel 285 a.C. Pirro trasferì qui la capitale del suo regno mentre il nome di Arta non compare prima del 1082. Nel 1204, con la nascita del Despotato ne divenne la capitale. Arta è famosa anche per il suo ponte appena fuori città (che attraversa il fiume Arhatos) e per la leggenda che lo circonda. Secondo lo studioso del folklore d’Epiro ed educatore greco Panayiotis Aravantinos (che lavorò sotto la dominazione ottomana), il ponte fu costruito ai tempi dei romani, mentre secondo alcune tradizioni fu eretto durante il Despotato, forse sotto Michele II Ducas (1230-1271). Una ballata popolare narra che ogni giorno 1.300 costruttori, 60 apprendisti, 45 artigiani e muratori, sotto la guida del capomastro, cercavano di costruire un ponte le cui fondamenta crollavano il mattino dopo. Una notte, un uccello con una voce umana svelò al capomastro che per far rimanere il ponte in piedi avrebbe dovuto sacrificare sua moglie. Uccisa e gettata nelle fondamenta, la donna cominciò a lanciare maledizioni che si trasformarono poi in benedizioni.