«La psichiatria mi ha sempre interessato, è uno spazio che pone delle sfide, fa pensare a noi stessi e ai nostri limiti dicendoci molto sulla nostra vita. Purtroppo negli ultimi 25 anni nel settore pubblico ha subito un decadimento dovuto ai tagli di budget, e a promesse disattese. L’Adamant è un luogo di resistenza: ogni paziente ha un suo peso specifico, perché la psichiatria non è una scienza esatta. Lì si lavora su come ciascuno è considerandolo nella sua unicità». Ci diceva questo Nicolas Philibert dopo la presentazione alla Berlinale 2023 di Sur l’Adamant col quale ha vinto l’Orso d’oro. Il regista di Essere e avere ha continuato a lavorare sulla realtà della psichiatria realizzando due nuovi film che insieme formano una trilogia: Averroés et Rose Parks, anch’ esso al festival di Berlino quest’anno, e La machine à ecrire et autres sources de tracas che uscirà a breve nelle sale francesi mentre il suo lavoro sarà oggetto di una prossima retrospettiva alla Cinémathèque francese.

Sur l’Adamant è ora nelle sale italiane in una uscita evento – cercatelo, è un film da non lasciarsi sfuggire – con le sue storie di vita e di cura che abitano questo battello ancorato sulla Senna, nel centro di Parigi, lungo il Quai de la Repée, dalla vaga somiglianza con l’Atalante del film omonimo di Jean Vigo. L’Adamant è un centro di accoglienza diurno per persone con disturbi mentali, ospedalizzati e non, che fa riferimento al Polo psichiatrico e psicologico di Paris Central; nella frase in apertura del film Philibert parla di quegli interstizi che è proprio dove posa il suo sguardo a comporre una ricerca poetica in cui procede sempre attento a lasciar respirare i soggetti e i racconti davanti al suo obbiettivo. In quello spazio i pazienti sono semplicemente «persone», non si propone loro cioè solo un «piano di cure» ma con esso c’è un fare quotidiano che permette a ciascuno di trovare un modo di esprimersi, di donare e, forse, di curare a sua volta.

È uno scambio costante che attraversa i numerosi laboratori di musica, disegno, la gestione del piccolo bar, la preparazione delle marmellate, il cineclub, senza separazioni tra gli operatori e i pazienti, senza distintivi che segnalano i ruoli né divise. E in questa relazione cerca il suo posto anche il regista, entrando pian piano nella comunità col suo fare-cinema. Qualcuno si «apre» di più, confida frammenti della sua storia: una donna che ha perso suo figlio quando questi era piccolissimo, lei stava male, le autorità hanno pensato che il piccolo potesse crescere meglio in un’altra famiglia. Un uomo discute di poesia, di cinema, di musica; è coltissimo e pieno di intuizioni, in ogni storia di un film o di una canzone vede sé stesso. Ma più che le esperienze dei singoli frequentatori a definire il film è l’idea di cura che ancora una volta Philibert mette al centro della sua riflessione in questo ritorno alla realtà ospedaliera psichiatrica che aveva già affrontato in La Moindre des choses, (1996). Come lui stesso dice: «Non c’è una sola forma di psichiatria, è un campo plurale, multiplo che ha un continuo bisogno di revisione».

QUESTA molteplicità, si esprime nella sua narrazione in modo ricco, nell’ascolto dell’altro, nello scambio che mette nuovamente al centro l’umano, la passione, il desiderio in ogni gesto di cura. Nel microcosmo collettivo di una possibile utopia che è l’Adamant gli sguardi non sono mai offensivi o distanti ma al contrario includono, la malattia non diventa un discrimine, e la singolarità di ciascuno e di ciascuna viene rispettata. Philibert dialoga con questo sentimento cercando di trovare nelle sue immagini il giusto spazio e la distanza in cui ogni persona filmata può esistere liberamente. Seguendo delle piste disseminate anche dal caso, si lascia guidare dagli incontri, dagli attimi imprevisti e gioiosi, dalle relazioni in ciò che diviene un viaggio di scoperta da fare insieme: noi spettatori, lui regista, i protagonisti.