L’uomo che mi sta portando in Siria dice che prima della guerra era ricco. Ora non ha più niente e lavora come tuttofare per i francescani di Damasco. Prima della frontiera acquista una confezione famiglia di barrette Twix, stipandole nel portaoggetti della sua scolorita Hyundai. Sulla strada, nella valle libanese della Beqaa, sventolano baldanzose le bandiere di Hezbollah e i posters del suo segretario generale, Hasan Nasrallah. L’autista è cristiano, originario del campo palestinese di Yarmouk. “Habibi (caro) Nasrallah” dice annuendo a una delle gigantografie. Il partito paramilitare sciita, insieme alla Russia e all’Iran, è stata la forza che ha evitato il collasso della Siria. L’autista è orgoglioso delle sue origini palestinesi, ma si sente tradito dagli abitanti Yarmouk. Molti dei suoi amici sunniti, sostiene, “hanno svenduto la Siria quando si sono schierati con i ribelli”. Ai vari checkpoint a ridosso del confine, l’autista incomincia a distribuire i Twix ai soldati scandendo una sfilza di “Allah ya’tik el a’fye”, “islamu” e “dir baalak” (“che dio ti dia la forza”, “grazie”, “stai attento”, ndr). Ne dà anche un paio al burocrate che mette il timbro alla frontiera e ai militari ai controlli a pochi chilometri da Damasco. È il simbolo dolciario della corruzione siriana. -L’uomo che mi riporterà in Libano sarà meno gastronomico: distribuirà banconote da duecento lire pescandole da una mazzetta proprio dove stavano i Twix-. La corruzione che “i puri” islamisti volevano spazzare via e sostituire con la legge della sharia. Una rivolta, quella siriana, scaturita da sacrosante proteste abilmente sfruttate da sacche jihadiste autoctone e rimpolpate dai miliziani giunti attraverso la Turchia e l’Iraq con la benedizione dei sauditi. Ma in Siria il giochetto del regime change non è “riuscito” come nell’Iraq di Saddam e la Libia di Gheddafi. E il paese ora è a pezzi. La popolazione si arrabatta per raccattare il gas e medicinali, che si lecca le ferite inferte da un conflitto che ha cambiato il volto del paese più ricco di sfumature etniche e confessionali del mondo arabo, portandosi via mezzo milione di morti e creando milioni di profughi.

È calata la sera a Damasco e Tabbaleh assomiglia ad un quartiere popolare di Nablus o di Amman. Ho gli occhi di frate Raimondo puntati addosso: credo senta puzza di mangiapreti. Il frate e sua sorella Yola, una francescana con la quale gestisce la parrocchia di San Paolo, non si fidano della stampa. Sono stati “fregati”, sostengono, da giornalisti che “hanno mentito su di noi e sulla Siria”, creandogli non pochi problemi con il regime. “Nel nostro istituto accogliamo tutti quelli che vogliano aiutare la Siria, raccontarla per quello che è, non ci interessano le beghe politiche italiane”. La diatriba è nata da una galeotta foto che ritrae la suora insieme a militanti di gruppi di estrema destra, italiana ed europea. C’è da scandalizzarsi? Forse. Dalla sua genesi, il conflitto siriano è diventato terreno di scontro non solo tra ribelli e jihadisti contro eserciti regolari, ma anche tra schieramenti politici occidentali: dalla sinistra tradizionale ed extraparlamentare, alla destra cristiana europea. Uno scontro fatto di controinformazione e bufale, puntellato sull’ideologia e su ciò che il partito Baath, nazionalista e di ispirazione socialista, ha rappresentato nel mondo arabo e nel levante. Uno scontro inteso a dividere il conflitto tra bene e male: ribelli buoni e regime spietato, islamisti travestiti da caschi bianchi e militari patriottici. “I responsabili di questo caos non si devono cercare in Siria. Questo era un paese stabile. Non era un paese perfetto, anzi, ma diversamente dai nostri vicini nella regione, più sicuro e rispettoso delle differenze religiose, con una sanità e una istruzione pubblica forte”. Il frate punta il dito contro i paesi del golfo a cui hanno fatto da gran cassa network come Al Jazeera e Al Arabiya. Una guerra per procura in chiave anti iraniana. “Non biasimo gli europei e gli americani, hanno creduto ai loro media, ma oggi mi sembra stiano aprendo gli occhi, soprattutto riguardo all’Arabia Saudita”.

La sera è scura a Damasco. Il razionamento dell’energia elettrica condiziona tutta la Siria: tre ore di luce seguite, quando va bene, da quattro ore di buio. La gente è silenziosa, sfuggente, si sforza di essere gentile, ma si vede che qualcosa si è rotto. La porta di Bab Touma è un viavai di taxi Saiba modello Saba, delle Duna in miniatura di produzione iraniana. Decine di checkpoint sparsi nei punti strategici della città, molta gente a piedi e, chi se lo può permettere, stipa all’inverosimile i desueti mezzi pubblici. Al mattino capita di vedere le file davanti ai forni per il pane e dove si distribuisce il gas, entrambi assegnati dal governo, il primo a prezzo calmierato, il secondo razionato. Secondo un report delle Nazioni Unite l’economia siriana è tornata a livello degli anni ’80 e il paese ha perso almeno un decennio in termini di indice di sviluppo umano: “la Siria non sarà mai più la stessa, la sua economia sarà modesta, la sua popolazione molto inferiore”. I siriani rimasti tengono duro, nonostante la corruzione, le prevaricazioni e le rappresaglie, figlie ordinarie di ogni post conflitto, infieriscano sui deboli, quelli senza wasta (raccomandazioni). “O assumo vecchi o assumo bambini” spiega Rami, un giovane imprenditore di Damasco che con il padre assembla e vende le popolarissime motociclette coreane che si vedono dappertutto. “Il problema che in Siria sono sparite duo o tre generazioni, e trovare operai dai diciotto ai quarantacinque è molto difficile”. Ci siamo incontrati nella zona residenziale di Dar el Salam, dove i figli della borghesia damascena trascorrono le giornate a bere caffe e smanettare su internet. Rami spiega che di operai qualificati non ne riesce a trovare, milioni sono scappati all’estero e quelli rimasti servono nell’esercito ormai a tempo indeterminato. “Se assumo bambini sono uno sfruttatore, se assumo i vecchi perdo il mio business”. Secondo l’imprenditore, i principali ostacoli sono rappresentati dalle sanzioni imposte dal “mondo libero” e dal servizio militare obbligatorio, che tiene lontani i giovani che vorrebbero tornare, ma che non ne vogliono sapere di bruciare la propria giovinezza per un regime indigesto rischiando la galera per diserzione. I milioni di siriani che hanno trovato rifugio in Europa e in nord America non torneranno più. Resta a quelli rimasti ricostruire, non solo le infrastrutture, ma la propria identità e dignità. Ricostruire provando a tenere a bada russi e iraniani, che, prima o poi, chiederanno il conto per il supporto militare e politico al regime.

Da abu George, un buco fumoso e scuro nella citta vecchia, si beve arak e le coppiette, stipate nei pochi traballanti tavolini, parlano fisso. È San Valentino. Chiedo ad una ragazza dai capelli ramati, che suppongo stia attendendo il fidanzato, se venga qui spesso. Certo, e aggiunge che lei è circassa, una etnia originaria della regione sud occidentale della Russia, sul Mar Nero. Si dice orgogliosa che in Siria non sia differenza tra etnie e confessioni religiose, siamo tutti uguali e questo “quelli del Daesh non lo volevano proprio”. Abu George non ha mai chiuso, neanche quando i colpi di mortaio cadevano davanti al suo portone. Perché? “Perché ho le palle e non volevo perdere i miei clienti” ribatte sbruffone l’anziano oste. L’arak è importato dal Libano. La produzione è ai minimi storici spiega abu George. Ma non solo arak, anche la produzione di derrate alimentari è calata vertiginosamente negli ultimi anni. Le sanzioni fanno il resto: quelle americane, già in vigore prima del conflitto e ulteriormente estese da Trump, e quelle europee, recentemente confermate dalla Mogherini. Tra queste, le più inspiegabili e deleterie, sono quelle che impediscono ai profughi che hanno trovato lavoro in Europa di inviare in patria parte del loro stipendio. Le poche organizzazioni non governative straniere e l’UNICEF, coordinati dalla Croce Rossa Siriana, aiutano con pacchi alimentari le famiglie più in difficoltà. Un paio di ong italiane sono impegnate a ricostruire alcune scuole ad Aleppo e a Deir Azzor. “Ci muoviamo con molta cautela” spiega un cooperante che preferisce rimanere anonimo. “Il controllo del governo su ogni attività delle ong è maniacale. Non si fidano di nessuno, ma se vogliamo continuare con i nostri progetti, dobbiamo sottostare alle loro regole. Alla fine noi siamo qui per aiutare la popolazione, non per sostenere il governo”.

Il mattino seguente, “accompagnato” dal mukhabarat dei servizi che mi pedina nella citta vecchia, il tabaccaio e il droghiere mi scambiano per russo. Gli uomini di Putin sono di casa nella capitale siriana. Li si può osservare parcheggiare la loro UAZ con la striscia rossa e la scritta in cirillico e arabo incamminarsi, accompagnati da un attaché dell’esercito siriano, prima in un negozio di liquori, dove la Via Recta incrocia quella che porta a Bab Touma, poi in un ristorante, a pochi passi dal patriarcato ortodosso. Uno di loro parla bene arabo. Discutono del menù. Poi quello più alto in grado, un omone coi capelli a spazzola, tira fuori una piccola mappa puntandoci sopra l’indice. Poco dopo un cameriere mi invita gentilmente a sedermi a un tavolo diverso. Il conflitto siriano non è stato una “palestra militare” solo per gli Hezbollah libanesi, il cui expertise si limitava alle tattiche di guerriglia acquisite durante i conflitti del 2000 e del 2006 contro Israele e che sta togliendo il sonno ai vertici militari dello stato ebraico, ma anche per l’ex esercito con la stella rossa. Secondo l’analista militare statunitense Michael Kofman, la guerra in Siria è stata “il principale conflitto di trasformazione per la Russia moderna e il suo esercito”, portando “molta esperienza e innovazione”. I russi hanno i loro bastioni sulla costa, a Tartous, sul Mediterraneo, dove sono ormeggiate le navi da guerra che tengono aperto l’accesso ai giganti energetici russi sul Mediterraneo e nella base aerea di Hmeimin, a Latakia, entrambi protetti dai sistemi di difesa missilistica aerea S-300 e S-400. Nel 2017, Vladimir Putin ha ottenuto una estensione di altri 49 anni per il controllo militare dell’approdo.

Lasciamo Damasco al mattino presto, direzione Aleppo. Ai vari checkpoint i militari intirizziti e con gli occhi cisposi controllano i documenti e il baule, guardano dentro l’abitacolo e ci danno il via libera con una pacca sul cofano. Molti soldati lo hanno preso in quel posto. Chi allo scoppio del conflitto stava svolgendo il servizio militare obbligatorio, è rimasto fregato. È stato obbligato a servire a tempo indeterminato. Molti si sono incattiviti, imbruttiti: costretti, data la natura del conflitto, ad aprire il fuoco sui propri concittadini. L’unica cosa positiva è la paga, bassa, ma sicura. E la possibilità di trarre qualche vantaggio, una mancia, una bombola di gas in più. È un refrain continuo quello sui soldati. Tutte le persone che incontro ne parlano ambiguamente. Con rispetto per le reclute semplici. Con astio verso i gallonati. Sostengono che siano alti ufficiali che “gestiscano” risorse energetiche, alimentari ed economiche a loro piacimento. Qualche giorno dopo, mentre lascio Aleppo per Hama a bordo di un pulmino smarmittato, scambio due parole con Hadi, un ismaelita trentacinquenne che allo scoppio della guerra si stava per laureare come traduttore. “Quando durante la leva obbligatoria mi hanno detto che avrei dovuto servire a tempo indeterminato, ho pensato di scappare all’estero, come hanno fatto tanti. Parlo inglese e francese, avrei potuto trovare lavoro in Europa e farmi una famiglia, costruirmi un futuro. Ma non ce l’ho fatta. Avrei tradito la mia famiglia, i miei compagni morti in battaglia”. Non lo dice con orgoglio, ma con rassegnazione.
Appena fuori Damasco si ha un esempio plastico della tragedia siriana. È Duma. Accostiamo. Mi ricorda il quartiere di Shujayya, a Gaza, dopo i bombardamenti israeliani del 2014. Gli scheletri degli edifici stagliano contro il cielo come cadaveri di pietra. Piazza dei martiri (
Shuhada) ancora dorme. Non è ancora giorno e in un edificio bucherellato e sciancato, s’intravede una lucina in una finestra e qualche panno steso sul balcone. La cittadina sta ritornando alla vita, ma è ancora sotto “sequestro” da parte dell’intelligence siriana e russa, convinte che tra i civili si nascondano ancora cellule di Jaish al-Islam, il gruppo islamista che la dominava fino all’anno scorso. Duma non è famosa solo per essere stata una dei primi centri conquistati e più lungamente mantenuti dai ribelli, ma anche per l’attacco chimico del 7 aprile 2018. Tutti gli indizi fecero putare il dito contro il regime e diedero il la al repentino bombardamento di Francia, Regno Unito e USA contro obbiettivi sensibili siriani. Robert Fisk, decano degli eventi mediorientali, uno dei più competenti giornalisti sulla piazza, ha sostenuto, basandosi sulle testimonianze di un medico di Duma, che l’attacco chimico dell’anno scorso potrebbe essere una macchinazione costruita abilmente dai jihadisti, supportati dai caschi bianchi, per convincere l’occidente a punire il regime. Il pezzo di Fisk fa da eco ad un corposo articolo di Seymour M. Hersh (l’uomo che ha svelato i crimini di guerra statunitensi in Vietnam vincendo il Pulitzer) apparso nel 2014 sulla London Review of Books. Nell’articolo Hersh documenta, attraverso i reports dei servizi americani e britannici, di come già dal 2013 si fosse a conoscenza che gruppi jihadisti come Jabhat al-Nusra fossero in possesso di agenti chimici. Hersh cita l’arresto, e la loro repentina scarcerazione, di una decina di jihadisti, nel sud della Turchia, per possesso di due chili di sarin. Altri dubbi e distinguo sull’attacco sono stati sollevati da James Harking, direttore del Centro di Giornalismo Investigativo dell’università Goldsmith di Londra, sul sito The Intercept. Ma non solo Duma; tra il marzo e l’agosto del 2013 ci sono stati 5 attacchi chimici attribuiti ai governativi: Khan al-Assal, Saraqib, Ghouta, Jobar e Ashrafiyat Sahnaya. Servirà indagare molto per stabilire la verità di questi massacri, l’invasione dell’Iraq del 2013 insegna. Ma porre dei dubbi sulle responsabilità degli attacchi chimici, non vuol certo dire negare gli orrori del governo siriano, o sminuire i decenni di regime autoritario e brutale degli Assad e dei loro sgherri Shabiha.

Prima della guerra per andare ad Aleppo da Damasco ci volevano 3 ore; ora 6, compresi detours e continui controlli ai checkpoints. Ci sono poche macchine sulla strada. Un convoglio della Croce Rossa con in testa un paio di mezzi blindati russi e, poco dopo, alcune jeep nere coi vetri oscurati. Le lande aride che si potrebbero vedere in estate sono praterie verdi e sconfinate. Ai lati della strada si intravedono le capanne di terra usate dai fellaheen nei periodi di raccolto. Checkpoints ogni dieci chilometri, la segnaletica è nuova e le condizioni dell’asfalto, a parte qualche tratto sconnesso, ottimali. I cartelli indicano l’uscita per Maaloula, la cittadina arroccata a più di 1500 mt dove si parla aramaico e dove sorgono i monasteri di San Sergio e santa Tecla, posta sotto assedio e conquistata dai miliziani di Al-Nusra nell’ottobre del 2013. In quel frangente gli islamisti si lasciarono andare ad esecuzioni sommarie, distruggendo icone ed edifici sacri. L’enclave fu riconquistata dai governativi e le suore, rapite dai miliziani, liberate nell’aprile del 2014. L’uscita successiva è quella di Qusayr, dove si è combattuta una delle battaglie più vitali del conflitto. Trovandosi a ridosso del confine libanese e in prossimità dell’autostrada che collega Damasco con Homs, la città era di importanza strategica sia per i governativi, sia per i ribelli, che da lì potevano gestire il flusso di armi e uomini attraverso la cittadina libanese di al Qasr, nella Bekaa. Il sole si è alzato e l’abitacolo si riempie dei miasmi provenienti dalle raffinerie: siamo all’altezza di Tartous. Molti impianti sono stati danneggiati, ma parecchi sono ancora in funzione. Come si spiegano allora i razionamenti di energia elettrica in tutte le città della Siria, compresa la capitale Damasco? Alcuni sostengono che al governo ci sia chi stia facendo la cresta e che utilizzi l’elettricità come manganello per punire le comunità ostili al regime e per far capire, a chi avesse ancora dubbi, chi comanda in Siria. Sia come sia, Iran e Russia hanno già annunciato investimenti per ricostruire la rete elettrica e riparare gli impianti, un investimento che il Fondo Monetario Internazionale ha stimato tra i 35 e i 40 miliardi di dollari. Cifre da capogiro, ma bazzecole se paragonate al costo per la ricostruzione della Siria, stimato tra i 400 e i 1000 miliardi di dollari.

Le strade all’ingresso di Aleppo sono di fresca fabbricazione, il traffico scorre lento e costante. Ma l’atmosfera è ancora più pesante che nella capitale. D’altronde qui si è combattuta una delle più sanguinose e angosciose battaglie siriane, con la città spezzata in due, i cecchini alle finestre e le esplosioni delle autobombe. L’assedio di Haleb è stato definito la madre di tutte le battaglie del conflitto siriano, che all’apice delle violenze ha visto tutte le fazioni in campo: governativi, Hezbollah e Russia da una parte, Esercito Siriano Libero, al-Nusra e mujaheddin ceceni dall’altra, con le forze del YPG a difendere i quartieri curdi. La Parigi del Medioriente, il più popoloso centro urbano, non era solo il motore economico del paese, ma rappresentava in nuce le diversità etniche e confessionali di tutta la Siria. Il caleidoscopio di culture composto da armeni, circassi, arabi, curdi e turchi –e fino alla meta del secolo scorso da ebrei-, snodo di scambi e commerci sulla via della seta per secoli, che fino a prima del conflitto ospitava (dopo il Cairo e Beirut) la comunità cristiana più numerosa del mondo arabo -300 mila ridotti a circa 40 mila fedeli- oggi è una città diversa. Spaccata da quattro anni di assedio, imbarbarita da omicidi mirati, rapimenti di civili e membri del clero, piagata dalle infami barrel bombs dei governativi, insanguinata dai colpi di mortaio su scuole ed edifici pubblici, con più di 30 mila edifici danneggiati o distrutti e la popolazione costretta a barattare le fedi per riso e pane. Ma il conflitto, grazie alla versione levantina del motto “testa basa e lavurà”, non ha spezzato lo spirito dei laboriosi altujjar (commercianti) aleppini. Lo testimonia il trasloco di tutti gli esercizi commerciali che affollavano la città vecchia, nell’area di al-Furqan, che prima di allora era una zona residenziale poco abitata, ma che oggi è il fulcro del commercio di Haleb. “La mia famiglia ha questa attività da 7 generazioni, siamo commercianti, non sappiamo fare altro” spiega Samir, baffi alla turca tinti e scriminatura a destra, nel suo negozio di scrigni intarsiati e tawla -il gioco simile al backgammon popolare in tutto il levante. “Durante l’assedio della città abbiamo tenuto duro per qualche mese, ma quando i colpi di mortaio hanno incominciato a uccidere indiscriminatamente civili, governativi e ribelli, abbiamo deciso di portare via i nostri prodotti e cercare un altro posto dove vendere. Mi manca la città vecchia, quella era la nostra casa”. Samir racconta che durante l’assedio molti imprenditori aleppini decisero di trasferire le loro attività in Turchia, ma che anche tanti macchinari (tessili e per la lavorazione del legno e del sapone) furono rubati dai “ribelli” e trafugati fuori dalla Siria. “A un mio amico imprenditore, hanno provato a vendere i suoi stessi macchinari proprio in Turchia, nella città di Gaziantep”.

Si arriva a ciò che rimane della città vecchia di Aleppo prendendo una stradina con cumuli di macerie alti due metri ai lati, venendo dal perfetto lastricato davanti all’ingresso della cittadella di al-Qalʿa che ho visitato ieri con Yara -una giovane studentessa universitaria di Hama-, dove si può ancora ammirare l’anfiteatro, la sala reale con lo stupendo lucernario ma non l’hammam, il bagno pubblico, perché in via di restauro a causa degli scontri. Nonostante la pioggia c’erano diverse scolaresche, comprese di insegnati urlanti che cercavano -supervisionati dalle onnipresenti gigantografie di Bashar al Assad- d’instillare più informazioni possibili sulla “gloriosa” storia della Siria. Prima di prendere la svolta a sinistra, verso la martoriata moschea degli Omayyadi, scorgo un ragazzino seduto su di un pietrone chino sul telefonino. Gli passo a fianco. Non mi nota. Ma non posso fare a meno di sentire i colpi del videogioco sparatutto che lo assorbe. Ad Aleppo, tra combattenti e civili, ci sono stati più di 30 mila morti. “Tfaddal ustaz”, prego maestro, “minhab Italia”, ci piace l’Italia, mi fa uno dei tre soldati che si riparano sotto una lamiera bucherellata all’entrata della più antica moschea di Aleppo e patrimonio dell’UNESCO. Nel 2013 fu danneggiata durante gli scontri tra l’esercito regolare e ribelli: i primi accusano i miliziani di Jabhat al-Nusra -rifugiatisi all’interno della moschea- di aver demolito il minareto con cariche esplosive, mentre i ribelli incolpano le truppe di Assad. La musalla, la corte centrale, intorno alla quale si dipana il porticato, è completamente coperta dai blocchi di pietra del distrutto minareto selgiuchide, allineati con ordine, numerati e catalogati. A rimpiazzarlo c’è una gru gialla scolorita che si staglia contro le nuvole gonfie. Le uniche due cose intatte, sono le fontane per il wudū, le abluzioni rituali prima del salat, la preghiera. Giù, sotto i portici, due carpentieri assemblano i telai in legno per ripristinare le arcate danneggiate. Avranno sì e no quindici anni. Mi notano per un istante, poi tornano ai loro attrezzi.

Yara è all’ultimo anno di architettura all’università di Homs. È ad Aleppo per il weekend a trovare la zia suora, Bernardette, che con altre quattro sorelle coordina le attività del monastero francescano di Aleppo. Durante l’assedio, centinaia di aleppini trovarono rifugio all’interno dell’enorme edificio in stile edoardiano, senza differenze tra censo o confessione. “Abbiamo provato ad accogliere tutti, ma temevamo di tirare dentro anche qualche jihadista che avrebbe potuto farci del male” racconta Bernadette in franco-italiano. Yara mi consiglia di andare ad Azzazieh, il quartiere dove prima della guerra c’era un po’ di movida. Sono rimasti solo 2 ristoranti dai prezzi poco accessibili e un bar che si chiama Cheers, come quello della sitcom americana anni ’80; quando apro la porta, ad accogliermi c’è un ottuagenario addormentato su un tavolo e un giovane muscoloso dietro il banco. Servono solo Afamia, la più popolare birra siriana. In tre minuti il bar si ravviva, le luci si accendono e il barista ha già messo su Toto Cutugno in mio onore. Prende coraggio, si avvicina e mi dice che sono anni che non vedono un turista, per dipiù occidentale. Nel 2010, prima della guerra, più di 8 milioni di persone avevano visitato la Siria; un introito, secondo le stime del ministero del turismo, pari a circa 8 miliardi di euro, più del 10% del PIL siriano. Armen, il barista, è figlio di un sunnita e di una armena che ora si trova in Canada. Ci tiene a farmi parlare con la madre che parla bene inglese e fa l’archeologa. Trascorro i dieci minuti successivi ad ascoltare la siüra decantare l’importanza della storia artistica e dello sconfinato patrimonio archeologico siriano. Mi dice con la voce rotta che la Siria “ha 6 siti riconosciuti dall’UNESCO e altri dodici in via di approvazione”. La chiamata si conclude con le lacrime di rabbia e frustrazione della madre del barista. Finisco la birra e vado a dormire.


L’Oronte è un fiume strano. È uno dei pochi corsi d’acqua al mondo che scorre da sud verso nord. Da qui il suo nome in arabo, Al-Assi, il “fiume ribelle”. E ribelli erano anche quei 400 mila cittadini di Hama che il 1 luglio del 2011 scesero in strada per protestare contro il regime riunendosi sulla piazza proprio difronte al fiume. Fu una delle più grandi manifestazioni pacifiche contro la democratura alawita, che non la prese bene e tentò, tanto per cambiare, di stroncarla sul nascere con la forza. Tra Hama e gli Assad non è mai scorso buon sangue, o meglio, in passato ne è scorso a fiumi. Hama è sempre stata il centro del conservatorismo sunnita e bastione dei Fratelli Musulmani in Siria. Nell’82 una sollevazione popolare guidata da un centinaio di ufficiali dell’esercito, fu soffocata dal fratello dallo zio di Bashar, Rifat al Assad, con un bagno di sangue. Si parla di decine di miglia di vittime civili, offuscate dal regime e dai media di allora, molto più concentrati sul conflitto tra Israele e l’Olp di Yasser Arafat, allora stanziato in Libano. Durante il conflitto Hama non è stata colpita come Aleppo e Homs e anzi, molti vi hanno trovato rifugio, raddoppiandone quasi la popolazione. Passeggio per il centro con il fratello di Yara, che studia fisioterapia a Homs. Il centro brulica di vita e commerci, sembra che il conflitto, qui, non sia mai arrivato. Ci fermiamo sulle rive del fiume ribelle ad ammirare uno dei pochi rimasti mulini ad acqua, le enormi ruote idrauliche di legno (norie) del diametro di 20 metri, che grazie a una meccanica ancora oggi stupefacente, per centinaia di anni hanno rifornito di acqua corrente tutta la città. “Appena mi laureo vado da mio fratello a Beirut, faccio un po’ di soldi e torno dopo quattro anni” mi confida Tariq davanti a un piattone di fatteh -hummus mischiato a pane e olio. Mi spiega che se si è in età per la naja, basta trascorrere quattro anni all’estero e, al ritorno in Siria, pagare 8 mila dollari alle autorità per essere esentati dal servizio militare ed evitare così la prigione. “Lo fanno in molti”, mi spiega, e che a suo parere è stata una mossa introdotta dal regime “per invogliare le centinaia di migliaia di giovani siriani a ritornare in patria e ricostruire la Siria”.

Fuori da Chez Moi, un popolare caffè su Hamra, uno dei vialoni principali di Homs, la strada è zeppa di fumogeni e bandieroni. Non è una manifestazione politica. Domani c’è il derby tra Al-Karamah e Al-Wathba, e come da tradizione le due tifoserie si trovano in strada la sera prima per scambiarsi insulti e sfottò. C’è il capo ultrà col megafono, i ragazzini coi bandieroni e la faccia da duri che se ne sbattono di quelle incazzate degli automobilisti bloccati nel traffico. Sono con Osama, il fidanzato di Yara. Gli chiedo cosa si sbraitino contro. Con mia sorpresa, le solite cose: allusioni sulla professione delle reciproche madri e sulla mascolinità delle opposte tifoserie. Dopo sette anni di guerra, il calcio sta tornando in Siria, e la popolazione ne è affamata. All’inizio del conflitto, alcuni giocatori della Premier League siriana decisero di schierarsi pubblicamente con il regime o con i ribelli. Qualcuno è stato ucciso combattendo, altri sono scappati, e qualcun altro è andato a cercar fortuna in campionati fuori dalla Siria. La nazionale, le Aquile di Qasium, dal nome del monte che sovrasta Damasco, è ritornata ufficialmente in campo contro la Palestina nell’agosto del 2018. Ma naturalmente non tutti sono stati contenti. Gli oppositori del regime hanno accusato i giocatori di esibirsi sotto l’egida del macellaio Bashar al Assad mentre altri atleti marcivano in galera. Firas al Khatib, originario di Homs e stella del club kuwaitiano dell’Al-Salmyia, ha boicottato la nazionale dall’inizio dello scoppio della guerra, per poi tornare sui propri passi e disputare un’amichevole contro l’Iraq in Malesia nel 2017. “Che io decida di giocare o no, avrò sempre una parte della popolazioni siriana contro di me” ha dichiarato in una intervista al network ESPN. Il mattino dopo il sole brillante mi da la possibilità di vedere chiaramente interi quartieri distrutti, edifici sventrati, carcasse di macchine bruciate e il verde della vegetazione che col tempo ha iniziato ad avviluppare le macerie, come se la natura stessa si vergognasse di quello scempio. Tre le rovine, in un garage semidistrutto, un vecchio vende panini con carne speziata, simile al tawook libanese. Lui e i due sdentati avventori mi stanno simpatici e mi convincono. La sera stessa, chiuso in bagno, maledirò loro e la mia ingenuità. Ribattezzata la capitale della rivoluzione siriana, per le imponenti proteste popolari sin dal 2011, Homs è la città dove perse la vita la giornalista statunitense del Sunday Times Marie Colvin, uccisa dagli “spregiudicati” bombardamenti governativi che la cronista aveva definito “assolutamente disgustosi”. In una delle sue ultime testimonianze, Colvin affermò che “l’esercito siriano” stava “semplicemente bombardando una città piena di civili affamati ed infreddoliti”.
Sarea lavora come cameriere in un baretto, dove si serve anche una pizza decente, nella città vecchia di Damasco. È laureato, parla inglese perfettamente ed è pure diplomato in chitarra al conservatorio. “Questo è l’unico lavoro che posso avere. La guerra si è portata via un sacco di opportunità, ha fatto abbassare gli stipendi e ha creato cittadini di serie A e di serie B: quelli con conoscenze nel governo e i losers (sfigati, ndr) come me”. Sarea sostiene che molti suoi coetanei, ma non solo, hanno incominciato ad assumere psicofarmaci a causa delle violenze, che molti soffrono di depressione e che i suicidi, soprattutto tra i giovani, quelli cresciuti durante la guerra, sono in aumento. L’impatto deleterio sulla psiche della popolazione siriana, trova conferma in un report di Save the Children in cui si sottolinea che “uno su quattro dei 2.5 milioni di ragazzi siriani sono a rischio di sviluppare disturbi mentali” che potrebbero produrre “depressione cronica, azioni autolesionistiche e tentativi di suicidio”. Sarea ha 25 anni e lui, al suicidio, ci ha pensato molte volte. “Non sai più qual è il tuo posto nella società, nessuno si fida più degli altri, dei vicini di casa e anche dei propri famigliari. C’è molto individualismo, ognuno pensa al suo, anche se questo vuol dire fottere qualcun altro”. Le tensioni e le violenze del conflitto hanno spezzato famiglie intere e messo l’uno contro l’altro padri e figli, cugini e amici di lunga data. È questa la vera tragedia della Siria. Sarea mi accompagna all’ingresso della biblioteca nazionale Al Assad che Hadi, l’ismaelita traduttore, mi aveva consigliato di visitare. Lui non entra, il posto non gli piace. È un edificio dal sapore brutalista che si affaccia su piazza Umayyade. Ci vogliono quaranta minuti per entrare. I soldatini nel gabbiotto si rigirano incuriositi il mio passaporto tra le mani. Dal cancello s’intravede la gigantesca statua di Assad padre seduto che osserva accigliato i visitatori. All’interno c’è un’atmosfera da Processo; burocrati annoiati che bevono caffè, pochi libri in bella vista e ancor meno studenti. L’arredamento sembra cristallizzato negli anni ’70. Ulteriori controlli, domande e occhiate indagatrici; mi accompagnano al quarto piano, dove un fantomatico Fadi avrebbe dovuto decantarmi le bellezze dell’edificio e la rarità dei suoi preziosi manoscritti. Dopo quasi un’ora di anticamera me ne vado. All’uscita Sarea nota la mia delusione e dice che se voglio acquistare qualche libro, lui conosce un posto poco lontano. Attraversiamo la piazza con il fontanone e ripercorriamo il viale in senso opposto, fino ad arrivare sotto al viadotto che il giorno seguente percorrerò per tornare in Libano. Lì c’è un ricchissima rivendita di libri usati e nuovi. Il corano e i libri di teologia la fanno da padroni, ma ci sono anche le traduzioni in arabo dei grandi classici occidentali: da Platone a Dostoevskij, da Flaubert a Nietzsche. Libri di cucina, educazione sessuale, archeologia, libri per bambini, di bricolage, e poi Mahmoud Darwish, Emile Habibi, Kanafani, Dickens, Wilburn Smith, Pasolini in francese, romanzi rosa, libri di grammatica inglese, dizionari, Baudelaire, Hemingway, manuali universitari di fisica e architettura. Trovo pure un fumetto erotico italiano degli anni settanta: “Stringi le chiappe e scappa”. Il protagonista ha sembianze di Alain Delon e deve investigare sul racket della prostituzione nella Parigi dei bobo. Lo acquisto insieme ad una copia in inglese del ’72 di Nexus di Henry Miller, edito dalla gloriosa Panther Book. E viene da chiedersi se tutto ciò che rimane della “vecchia” Siria, tutto ciò che rappresentava la complessa società levantina, sia tutto lì, in quei mucchi di libri impilati sotto un viadotto.