Costretto per mesi a giocare nel ruolo di comprimario, Berlusconi prova a rientrare in partita da protagonista. La strada per recuperare la centralità perduta passa per l’ex delfino traditore, e il campo, va da sé, è quello del Colle. Il leader azzurro e il ministro degli Interni si sono incontrati ieri nella Prefettura di Milano alla testa delle rispettive delegazioni, Cesa, Lupi e Quagliariello con Alfano, Ghedini e Toti con il cavaliere. Stamattina alle 9 Berlusconi vedrà Renzi. Metterà sul tavolo l’esito, e la forza numerica, del nuovo asse: 250 voti.

Assenti, ieri, i capigruppo: una di quelle trovate diplomatiche per non ritrovarsi tra i piedi il rissoso Brunetta. Certo, in questo momento Berlusconi, che oggi dovrebbe incontrare i senatori e domani i deputati, non intende certo regalare ai ribelli il capogruppo alla Camera. E’ stato lui stesso, ieri, a muovere i primi passi verso una riconciliazione. Però portarsi una simile testa calda al delicato meeting con Angelino Alfano avrebbe potuto rivelarsi disastroso. Di ruggine tra l’ex sovrano e l’ex delfino ce n’è ancora parecchia. Però meno di prima, anche perché nel frattempo anche Raffaele Fitto, l’arcinemico di Alfano, è entrato nel plotone dei «traditori». Ma soprattutto è l’interesse comune a rendere facile lasciarsi alle spalle il passato, almeno quanto basta per procedere uniti verso il Quirinale.

«Accordo per un candidato moderato», dice Alfano fresco di vertice. L’obiettivo è mettere in campo una rosa di nomi, per costringere Renzi a trattare apertamente invece di restare acquattato in attesa di giocare la sua carta, possibilmente a sorpresa. Quali saranno i candidati in questione è ancora incerto, ma probabilmente nel pacchetto figurerà Giuliano Amato, l’uomo per tutte le stagioni e per tutte le pensioni (purché cospicue), il consigliere di Craxi più lesto di ogni altro ad abbandonare la nave che affondava, il socialista gradito a tutti i poteri finanziari, la testa d’uovo del centrosinistra adorata dal centrodestra. Forse una delle poche possibilità, ove eletto, di far rimpiangere Napolitano. Al suo fianco dovrebbe esserci Pier Casini, fortemente sponsorizzato da Angelino il cattolicissimo, perché un altro che garantisca quando lui un Quirinale in odor di sagrestia non lo trovi, e soprattutto perché con lui lassù la spinta verso quel partitone cattolico a cui mira Alfano sarebbe assicurata. Quanto al terzo nome, facile che spunti qualcuno non direttamente politico.

Sono ipotesi che Matteo Renzi non potrà accettare. Prima di tutto perché sia l’uno che l’altro, una volta insediati in un palazzo dal quale non potrebbero poi essere sloggiati per sette anni, scoprirebbero una irresistibile vocazione monarchica. Ma ancor più perché in questo momento sostenerli a braccetto col socio del Nazareno vorrebbe dire spaccare definitivamente il Pd, cosa che Renzi preferirebbe di gran lunga evitare. Pierluigi Bersani ha già messo le mani avanti: «A Berlusconi Renzi deve dire di rassegnarsi».

La preoccupazione che ieri ha spinto il premier ad aggiornare l’assemblea con i senatori dem, in realtà, è legata più alla partita del Colle, e in prospettiva alla tenuta del Pd, che a quella della legge elettorale. Anche se l’emendamento dei dissidenti sui capilista verrà comunque bocciato grazie al voto di Forza Italia, sarebbe, anzi quasi certamente sarà, la prima volta che l’intera minoranza, non un drappello particolarmente radicale come ai tempi della riforma istituzionale, vota contro il segretario e premier. A Renzi non sfugge l’importanza del gesto, in vista della nomina del capo dello Stato e a maggior ragione di una possibile scissione, che l’addio di Cofferati rende più vicina e temibile.

Il premier, infine, non ha interesse a concordare un nome con Berlusconi subito. La sua strategia, almeno per ora, è un’altra: mettere in campo un candidato per bloccare l’operazione Prodi, dunque un nome accettabile anche da molti dissidenti Pd, per poi decidere, sulla base dei consensi ottenuti nelle prime votazioni, se sostenerlo anche nella quarta e decisiva. Il nome più probabile resta quello di Sergio Mattarella, che però, fa notare qualcuno nel Pd, pare fatto apposta per finire come Luciano Violante nelle elezioni per la Consulta.