Un evento inspiegabile: centinaia di mante si arenano sulla spiaggia di Gaza. Come una manna dal mare. Quel mare che per i palestinesi non è libero. Con i pescatori che sovente sono costretti a spostarsi in acque egiziane per non tornare a casa con le reti vuote. Questa pesca miracolosa, che sembra offrirsi come un dono inatteso, una boccata d’aria in una situazione difficilissima, scatena i pescatori che si contendono le mante e le fanno a pezzi per venderle al mercato.

Come incipit del proprio film, il collettivo Teleimmagini non poteva scegliere immagini più potenti e aperte.Perché è la capacità di reagire agli imprevisti e all’inatteso che caratterizzano le successive 24 ore a Gaza sono il fulcro di un film che è riuscito nell’impresa non facile di offrire finalmente un’immagine nuova alla striscia e al conflitto israelo-palestinese. Tra i numerosi protagonisti del film figurano il contadino Jabber i cui campi si trovano a pochi metri dal confine israeliano e dai mezzi militari che s’affollano lungo le frontiere. C’è la bellissima Noor, volto di Tijan Tv che giorno dopo giorno tiene il conto di morti e feriti allertando sulle emergenze umanitarie. Salem, una passione per il calcio, oltre che una carriera finita a causa della guerra. I fratelli Majd e Mohammed, giovani rapper che si ritrovano con i loro amici sulla spiaggia a fare musica perché l’hip hop e la musica sono invisi alle autorità religiose. Moemen, fotografo che ha perso le gambe durante i bombardamenti del 2008.

E, infine, i ragazzi del Gaza Parkour, le presenze più affascinanti del film, che adottando una pratica strettamente urbana nata per le strade di Parigi, tentano di dare un senso alla loro presenza fra le rovine. Nell’ambito del cinema del reale il film d’ambientazione palestinese è un vero e proprio genere a parte. Basta ricordarsi della battuta di Jean Rouch a Eyal Sivan dopo aver visto il suo primo film: «Sembra un film fatto apposta per andare al Cinèma du rèel» (la fonte dell’aneddoto è lo stesso Sivan). Senza contare che quello israelo-palestinese è uno dei conflitti più documentati di sempre. Presentato in numerosi festival, è stato proiettato anche al Jewish Film Festival di San Francisco, fortemente voluto da Jay Rosenblatt. In quell’occasione, durante la guerra, gli autori hanno chiesto e ottenuto che fosse letta dal palco una dichiarazione che chiarisse la loro posizione sul conflitto.

Striplife, dunque, rinunciando agli approcci più prevedibili, ossia quello meramente osservazionale o strettamente militante, trova una chiave d’approccio inedita alla realtà di Gaza, assolutamente aperta che non solo rende giustizia alle infinite sfaccettature di una situazione complessa ma riesce anche a proporle sotto nuova luce. Adottando una strategia non narrativa, il film si offre come il più affidabile dei racconti, evidenziando le durezze di una situazione impossibile, le sue contraddizioni interne, e la dignità di una resistenza che non cede. Il collettivo Teleimmagini, ossia Valeria Testagrossa, Nicola Grignani, Alberto Mussolini, Luca Scaffidi e Andrea Zambelli, è riuscito nell’impresa di realizzare un lavoro completamento autoprodotto, senza cedere alle lusinghe del pauperismo e, soprattutto, evitando che il film si sfilacciasse assecondando le visioni dei singoli contributi filmati o le esigenze dei vari registi.

In questo senso l’intuizione più forte di Striplife è di avere realizzato un film collettivo, prodotto da un insieme di soggetti collettivi per portare sullo schermo una storia collettiva. La precisione di un montaggio che riesce a muoversi calibrando dimensioni e proporzioni, permettendo al film di muoversi fra i suoi numerosi personaggi senza nessuno strappo, fa il paio solo con la rapita eleganza e il trasporto tangibile con il quale sono filmati i ragazzi che praticano il parkour.
Come in una sorta di percorso sentimentale, Striplife è un’immersione di straordinaria ricchezza in un mondo che, probabilmente, non è mai stato mostrato con tanta precisione pur evitando di mettere in campo le parole d’ordine che tutti conosciamo.

La precisione di un racconto polifonico che come un beat batte il suo tempo, respirando la strada, battendola palmo a palmo. Ed è lo sguardo del collettivo, in grado di porre in rilievo e far affiorare dal tessuto del quotidiano le più impercettibili increspature del reale, che si offrono come epifanie contenenti la promessa di un’interruzione della realtà a fare la forza e la singolarità di Striplife. Come dire che a volte la realtà ha bisogno di una mano, come ben sanno i pescatori che conoscono la storia «vera» delle mante e che gli autori del film si guardano bene dal rivelare.