Il successo del faccia a faccia di mercoledì sera tardi (quasi ieri mattina) tra il ministro degli esteri russo Sergei Lavrov e il segretario di stato John Kerry, ha rappresentato il via libera definitivo ai raid dei cacciabombardieri russi contro l’Isis e altre organizzazioni jihadiste che combattono in Siria. Ai primi intensi attacchi aerei di mercoledì, ne sono seguiti almeno altri otto nel corso della notte, contro quattro obiettivi: un quartier generale e un deposito di munizioni vicino Idlib, un punto di comando vicino Hama e una fabbrica di esplosivi a nord di Homs. Mosca ci tiene a sottolineare il suo pieno coordinamento con l’alleata Damasco. Il portavoce di Vladimir Putin ha spiegato che «gli obiettivi sono stati determinati in coordinamento con le forze armate siriane». L’aviazione russa, «sta fornendo sostegno alle forze siriane che combattono contro l’Isis e altri gruppi terroristici ed estremisti», ha aggiunto il portavoce confermando indirettamente che i raid prendono di mira anche altre formazioni jihadiste e qaediste che dal 2011 infestano la Siria, spesso con finanziamenti che arrivano dal Golfo.

Com’era da aspettarsi si era già scatenata una guerra di propaganda e di accuse. Secondo l’«opposizione siriana» i raid russi avrebbero causato 36 vittime civili. «Effetti collaterali» che non sono mai stati rivelati dall’opposizione in 8 mesi di raid Usa. In mattinata il Pentagono denunciava «colpite le milizie addestrate dalla Cia». Ma non aveva detto il generale Austin, comandante in capo delle Forze Usa in una audizione al Senato di pochi giorni fa che gli uomini sul campo di quelle milizia, per le quali sono stati spesi «500milioni di dollari», corrispondono ad un effettivo «di sole quattro o cinque persone»? E ieri sera la Casa bianca ha rincarato, a parole, la dose: «Non sono chiare le intenzioni russe».

Ma Lavrov, nonostante il colloquio positivo con il suo omologo americano, non ha esitato a smentire Kerry che ha affermato che la Coalizione anti Isis messa in piedi da Washington più di un anno fa «sta operando in stretta conformità con la Carta dell’Onu, incluso l’articolo 51 che prevede il diritto all’autodifesa collettiva». Questo articolo, ha chiarito il ministro degli esteri russo, «si applica soltanto nelle situazioni in cui un certo Stato chiede di essere protetto». Perciò, ha detto, è la Russia che agisce nella legalità, perché è intervenuta su richiesta della Siria. Non la pensano così gli Stati Uniti e molti altri Paesi schierati contro il presidente siriano Bashar Assad. «Siamo pronti a dare il benvenuto agli attacchi russi in Siria se riflettono un impegno genuino a sconfiggere l’Isis. Ho ripetuto i timori già espressi nella riunione del consiglio dell’Onu» aveva detto Kerry prima di incontrare Lavrov.

Ma, ecco il punto, il meeting avvenuto qualche ora dopo però sembra aver portato Mosca e Washington sui binari di una intesa impensabile appena qualche giorno fa. «È stato un incontro costruttivo e utile dopo quello tra i presidenti Putin e Obama», ha annunciato Lavrov. «È imperativo trovare una soluzione per evitare una escalation al di fuori del controllo di tutti», ha aggiunto il Segretario di stato. Sul piano militare i dissensi tra le due parti appaiono in gran parte superati. Lavrov e Kerry hanno anche concordato sulla necessità di colloqui immediati tra comandi militari americani e russi. D’altronde l’Amministrazione Obama ha dovuto prendere atto della decisione di Mosca di entrare in scena, con la potenza delle sue forze armate, per tutelare i suoi interessi e sedersi a qualsiasi tavolo di negoziato vero sul futuro della Siria. Resta invece opaca la questione politica.

«Siamo d’accordo sulla necessità di avviare un processo che porti a una Siria democratica, unita e laica», ha spiegato Lavrov lasciando intende che, in termini generali, le due parti hanno una visione comune. Il nodo irrisolto resta la transizione politica. Da un lato Russia e Iran (che Washington ora è disposta a coinvolgere dopo averlo escluso dalle conferenze di Ginevra sulla Siria, su pressione di Arabia saudita e Qatar) sono aperti a una fase di passaggio dei poteri che non deve obbligatoriamente prevedere un passo indietro immediato di Assad. Dall’altro ci sono Washington, Parigi – entrata anch’essa in scena militarmente in Siria anche su pressione di Riyadh e di altri Paesi del Golfo che acquistano armi francesi per miliardi di dollari – e diversi paesi occidentali e arabi che invece vogliono che il presidente siriano se ne vada subito.

Le posizioni sono ancora lontane ma il riconoscimento ottenuto dagli Stati Uniti forse prevede parziali concessioni di Mosca sul futuro di Assad. Qualche segnale già si coglie. L’ambasciatore di Russia in Francia, Alexandre Orlov, ad esempio, ha detto di sperare in «Elezioni libere e sotto controllo internazionale fra un anno in Siria, quando non avremo più a che fare con l’Isis». E se il Cremlino sino a oggi ha sostenuto il diritto di Assad di partecipare alle future presidenziali, alla luce del consenso il presidente che riscuote ancora tra milioni di siriani, dopo le intese raggiunte l’altra sera con gli Stati Uniti potrebbe rivedere a questa facoltà per il presidente siriano.