Non lasciamoci confondere dalla vile strumentalità politica di Matteo Salvini. Vile perché ogni volta che il ministro dell’interno si trova di fronte a persone non in grado di difendersi, egli non perde l’occasione per strappare qualche voto ad un suo pubblico egualmente disarmato.

N on importa se si tratta di naufraghi in balia delle acque, di palestinesi disarmati sotto il tiro dei cecchini di Netaniahu o di un assassino ormai circondato dalla polizia. Cesare Battisti è un assassino, condannato in via definitiva, al di là delle motivazioni che lo hanno mosso, che ha tolto la vita o concorso a togliere la vita a quattro persone.

Dall’epoca della sua latitanza i democratici italiani, virtualmente senza eccezioni, non hanno condiviso la qualifica e la protezione di esule politico offertagli da alcuni presidenti francesi, sollecitati da un gruppo variegato d’intellettuali sempre francesi, oltre che da una tradizione con nobili precedenti (l’esilio offerto ad antifascisti italiani negli anni venti e trenta) e, successivamente, dai presidenti del Brasile, Lula e Rouseff che, a loro volta, hanno dovuto fare i conti con la destra paragolpista oggi al potere.

È giusto che egli sia stato consegnato alla giustizia italiana costituzionalmente vigente, ma è ripugnante che (come suggerisce la vignetta di Biani, pubblicata dal manifesto) alcuni sciacalli – che si tratti dell’attuale presidente Bolsonaro o del ministro Salvini – traducano questa vicenda in moneta politica.

Detto questo, vale la pena ricordare che tutta la sinistra italiana ha condannato al suo sorgere il terrorismo, qualificandolo come tale, senza omettere le sue pur distorte matrici ideologiche ( il così detto album di famiglia a suo tempo evocato da Rossana Rossanda). In particolare abbiamo denunciato – uso il plurale perché questo giornale non ha avuto tentennamenti in proposito – come l’attacco proditorio contro vittime inermi, non di rado impegnate in senso democratico, non possa qualificarsi quale forma di lotta politica. Che, in secondo luogo, esso ha l’effetto di consolidare il potere costituito che, a parole, si prefigge di colpire ed abbattere.

Siamo arrivati a denunciare il difetto di repressione come una mancanza, calcolata o meno, da parte dello Stato, in particolare in occasione del sequestro e dell’assassinio di Aldo Moro (cfr., a questo proposito, l’analisi, a mio avviso definitiva di Giorgio Galli, Storia del partito armato, 1968-1982, Milano, Rizzoli, 1982).