Che, anche solo per ipotesi, si ricominci a parlare di didattica a distanza, per il terzo anno scolastico consecutivo, è gravissimo; sarebbe il fallimento di un Paese di fronte alle nuove generazioni, per quello che si doveva fare e non si è fatto, per cui c’era il tempo e ci sono i soldi, dentro e fuori il Pnrr.

Ribadisco subito due cose: la didattica a distanza è stata una soluzione d’emergenza (utile e inevitabile) nel primo lockdown, ma già nell’autunno scorso bisognava evitare di tornarci; non è un modello sostitutivo dell’unica scuola e dell’unica università, quella delle persone e della relazione diretta; e – con altrettanta chiarezza – non c’entra nulla con la didattica integrata, cioè con l’utilizzo del digitale in presenza, per favorire attività laboratoriali e di coinvolgimento.

Le cose da fare erano e sono di una concretezza disarmante; mi permetto di dire che basterebbe seguire le interrogazioni parlamentari o le proposte emendative presentate da Sinistra Italiana in questi mesi, per avere un quadro chiaro. Qui si apre una finestra – breve ma preoccupante – sulla piega che ha preso la vita parlamentare, quindi democratica, nel nostro Paese (di cui la sostanziale assenza di dibattito sul Pnrr è già indicativa): alle interrogazioni parlamentari non si risponde o lo si fa dopo mesi; soprattutto a quelle delle opposizioni. Eppure, lo dico con una certa amara ironia, non è che le opposizioni, in questo scorcio di legislatura, siano poi numerose! Il Ministro Bianchi è, senza ombra di dubbio, un sincero democratico, ma il contesto in cui è inserito, forse, esercita una pessima influenza. Anche aver firmato un positivo “patto per la scuola” con le organizzazioni sindacali, per poi fare, dopo 48 ore, scelte diverse nel decreto “ristori bis”, è indicativo del valore quasi esclusivamente formale che il governo Draghi attribuisce alla dialettica democratica, tanto con le parti sociali (o meglio, quelle dei lavoratori), quanto con le aule parlamentari.

Per esempio, tornando alla concretezza della vita scolastica, in una delle ultime interrogazioni presentate da Nicola Fratoianni, si chiede di dare una indicazione chiara agli Uffici scolastici regionali, affinché considerino superate le vecchissime (e già allora sbagliatissime) disposizioni numeriche e autorizzino classi con non più di venti alunni; sì, perché nonostante il gran parlare di superamento delle “classi pollaio”, in diverse regioni si prevedono classi da 25 a oltre 30 alunni; era già sbagliato in quella “normalità” distorta che c’è scoppiata in faccia, è una follia in piena emergenza pandemica. Si sono chieste anche altre cose, al Ministro: per esempio, com’è possibile che, in diverse regioni, il concorso straordinario sia stato superato da un numero molto minore rispetto alle cattedre disponibili. È paradossale, non solo perché (lo dico per esperienza diretta) molti di quei colleghi e colleghe sono preparatissimi, insegnano da anni; ma soprattutto perché si rischia di avere molte cattedre scoperte, non si potranno fare classi più piccole e quegli stessi docenti saranno comunque nominati ancora come precari. Si è chiesto anche come mai, nonostante l’assoluta necessità di aumentare i docenti di sostegno, le Università attivino meno posti per i concorsi abilitanti, rispetto ai docenti che hanno conseguito l’idoneità. Potrei continuare, sulla scuola e sull’università. Ma voglio aggiungere poche altre cose, ancora una volta assai concrete e, credo, di buon senso, così forse qualche orecchio riformista può disporsi all’ascolto.

In questi mesi occorreva moltiplicare i trasporti pubblici; occorreva ampliare gli spazi (ad esempio adeguando strutture comunali o provinciali adiacenti), proprio per consentire più classi e più piccole; occorreva dotare le aule di ricambio d’areazione (per evitare le finestre costantemente aperte in pieno inverno). E soprattutto occorreva assumere molti e molte insegnanti in più, renderli stabili, garantendo in questo modo una didattica davvero inclusiva; per la quale vanno create le condizioni reali, invece di evocarla come un mantra. Nel Pnrr, per la scuola, quello che c’è è tendenzialmente sbagliato, rispondente ad una logica di selezione aziendalistica (le cifre proposte per le valutazione Invalsi ne sono un esempio eloquente); quello che, invece, serve veramente non c’è.

È tardi per fare tutto? Probabilmente sì, ed è grave. Ma non è tardi per fare qualcosa; e non farlo sarebbe gravissimo. Ma veramente scandaloso, pedagogicamente ed eticamente, sarebbe – mi ripeto con volontà consapevole – mettere la scuola italiana ancora nelle condizioni (parziali o complessive) di non poter riaprire in presenza e in sicurezza; o, peggio, perché si aggiungerebbe la beffa al danno, colpevolizzare i giovani o le famiglie dei bambini non vaccinati. Chi scrive è, senza remora alcuna, un sostenitore dell’indispensabilità dei vaccini; ma successi e insuccessi di una campagna vaccinale sono responsabilità primaria di chi governa un Paese e, soprattutto, non si può nascondere lì dietro tutto il resto, che andava fatto, a prescindere dalla campagna vaccinale e, in buona parte, dalla stessa pandemia.

L’autore è Responsabile Scuola, Università e Ricerca della Segreteria nazionale di Sinistra Italiana