«Quando C. è stato costretto a lasciare il gruppo e ad abbandonare gli scogli, qualcosa si è ’rotto’ perché lui – entrato in una casa famiglia come conseguenza di un piccolo processo per fatti avvenuti anni prima – era un elemento di coesione per tutti». Il ricordo di Daniele Vita è quello di un ragazzo pacato e dai toni gentili.
Classe 1975, studi di antropologia e sociologia alle spalle per poi incamminarsi sui sentieri della fotografia, Vita ha al suo attivo diversi cicli narrativi, alcuni incentrati sulla Sicilia – da Lampedusa alla settimana santa – altri sulle mille realtà di Istanbul. Poi c’è la «Tuscia madre» (è nato a Vetralla), luogo di origine e intensa geografia sentimentale.
Con il suo reportage Bagnanti (ambientato a Catania, sugli scogli dove si infrange il mare e dove gli adolescenti dei quartieri popolari sono abituati a passare il loro tempo estivo), ha vinto il World Report Award 2021 nella sezione «Generazioni Future». Ora quel lavoro è esposto nell’ambito della XII/a edizione del Festival della fotografia etica di Lodi, a Palazzo Barni, fino a questa domenica.

Il ciclo «Bagnanti» è una immersione in una realtà dura, eppure il titolo rimanda a immagini simboliche della storia dell’arte, da Ingres a Cézanne. Può raccontare come è nato il progetto?
Il progetto ha preso forma nel maggio scorso, subito dopo i 56 giorni di lockdown ho iniziato a fotografare il riavvio alla normalità di Catania. Un capitolo che avevo aperto e non terminato l’anno precedente era la scogliera catanese, che d’estate si riempie di ragazzi provenienti da tutti i quatteri, (quartieri) popolari della città. Così, sono andato a San Giovanni Licuti i primi di maggio. Dopo tre giorni che scattavo immagini un ragazzino mi urlò contro: «Mbare che minchia fotografi, qui non puoi». Ma un altro, dietro di me, gli rispose: «Lui sta qui tutti i giorni, come noi, può fotografare». Quando mi sono girato, ho trovato il sorriso di un ragazzo di quattordici anni, pronto ad accogliermi. R. arrivava dal quartiere Passarello e passava le giornate sulla scogliera insieme a suo fratello Marco. In poco tempo, ho assistito alla formazione di un gruppo di dieci ragazzi e ragazze tra gli undici e i quindici anni, li ho seguiti fino a quando la comitiva si è sciolta. Il titolo Bagnanti è un omaggio a loro. Spesso provengono da contesti sociali molto duri, la loro età biologica non corrisponde a quella della loro vita sociale. Ho voluto offrire un tributo alla loro bellezza, sogni, voglia di libertà e si è creato un parallelo quasi spontaneo osservando i Bagnanti che popolano la storia dell’arte.

In quanto tempo si è sviluppato il suo progetto? Cosa ha scelto di narrare e cosa, invece, ha preferito tenere fuori dall’inquadratura?
Il tempo è stato breve. Il gruppo in circa un mese e mezzo si è formato, ha vissuto e si è disciolto. Le tre coppie nate al suo interno si sono separate, fortunatamente senza che nessuna delle ragazze rimanesse incinta. Molti adolescenti dei quatteri, a quell’età, sono già genitori e davanti a loro si srotola una vita ancora più difficile.
Ho escluso volontariamente dal racconto le loro attività quotidiane, più o meno lecite. Non rappresentavano il mio interesse. Io stesso da giovane ho vissuto realtà molto vicine alle loro, fortunatamente abitavo nelle campagne di un piccolo paesino nel viterbese e non nei quartieri popolari di una città metropolitana. La marginalità e due incontri fortunati mi hanno salvato. E si sono trasformati nelle basi della mia fotografia. Dopo tre anni passati a Catania nella quotidiana osservazione del tessuto sociale, il mio obiettivo era definito: donare dignità e bellezza a chi sempre viene negata per puro pregiudizio.
Ho ritratto i «bagnanti» tra le rocce, mi sembrava quasi di poter intravedere momenti felici della loro adolescenza. Ho voluto raccontarli con semplicità, inseguendo gli attimi di spensieratezza. Ho percepito una grande vitalità nel loro spirito e un bisogno impellente di recuperare il tempo perduto nei giorni del lockdown.

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Come è riuscito ad acquistare la fiducia delle persone fotografate, a non farle sentire giudicate o tradite?
Una lezione che mi porto dietro fin dagli anni dell’Università è l’osservazione partecipante di Bronisław Malinowski. In sostanza, tendo a stare molto con i miei soggetti e a partecipare alla vita sociale del gruppo. Ciò mi porta, quasi naturalmente, a vivere come fossi uno di loro. La barriera del pregiudizio è potente. Tutti dentro di noi costruiamo dei giudizi a priori verso categorie o persone che non conosciamo. Il mio maggiore sforzo non consiste nello scattare una fotografia, ma in quello di cercare di abbassare il più possibile la soglia del pregiudizio. Spesso i soggetti scelti fanno parte di un mio innamoramento empatico: vale anche per i Bagnanti.
In questo lavoro, a rendere più complessa la situazione è stata la mia età: era la stessa dei loro genitori, non ero un coetaneo. Ho cercato di rivivere, insieme al gruppo, una sorta di mia seconda adolescenza. Il fotografo scatta immagini, seleziona quelle più significative e, infine, le monta insieme imbastendo un filo conduttore, una storia. Credo nella soggettività degli individui, ancora di più che in quella dei fotografi. Ho realizzato la mia narrazione dei Bagnanti, descrivendola con la stessa loro spensieratezza. Spero di non averli traditi.

Tra il prima pandemia e il dopo, cosa è accaduto a quei ragazzi che già vivevano situazioni aspre?
Io li ho conosciuti dopo il confinamento. Sprigionavano energia, una risposta a quei 56 giorni di isolamento. Dovevano riprendersi la libertà a loro sottratta. Ho frequentato gli scogli anche durante l’estate del 2021, ma non vi era più il gruppo dei Bagnanti. L’energia di quel luogo e dei ragazzi che lo avevano abitato era mutata. E la pandemia, intesa come distanziamento sociale, era stata dimenticata. Nei luoghi popolari di Catania così come quelli di altre città – sia italiane che di tutto il mondo – l’emergenza sanitaria ha rappresentato solo uno dei tanti problemi da affrontare nel quotidiano. Primo fra tutti, la sussistenza economica. La maggior parte di quei Bagnanti, infatti, non ha potuto frequentare la scuola a distanza. Non avevano connessione internet, oppure andavano a lavorare. La dispersione scolastica è un tema importante quando si parla dei quatteri.

Può spiegarci il significato di «mammoriani», termine con cui vengono definiti?
Nei contesti sociali più ricchi questi adolescenti sono chiamati «mammoriani». La parola deriva dall’espressione «mammoriri mo mà» (che mia madre possa morire), utilizzata come forma di giuramento che fa ben comprendere il forte legame con il membro della famiglia considerato più sacro: la madre. La famiglia è il primo nucleo sociale, con regole e ruoli molto chiari e da rispettare. Sempre, anche nelle scelte che riguardano la propria vita, in un legame indissolubile di devozione e rispetto. Questo tipo di «rispetto» coincide con una cultura mafiosa ancora oggi molto diffusa.

Come ha iniziato a fotografare e qual è stata la spinta verso quel mezzo al posto di altri per esprimersi?
Ho incontrato la fotografia ai tempi dell’Università. Un mio amico acquistò una Reflex, mi appassionai e ne presi anche io una usata. Poi, casualmente, entrai in una camera oscura seguendo un altro amico che doveva sostenere un esame all’accademia. Devo riconoscere che lì ci fu la scintilla, scoppiò il vero amore: in camera oscura ho appreso l’artigianalità della fotografia. Successivamente scoprii i grandi maestri attraverso i loro libri, mi appassionai all’arte, al cinema, soprattutto al neorealismo italiano. Sono una persona curiosa, la macchina fotografica ha sempre rappresentato un eccellente strumento per entrare nelle vite degli altri, quando questi me lo hanno voluto concedere.