La Libia è un capitolo particolare della attuale guerra fredda, lo specchio deformante di una politica internazionale che riflette e genera mostri. A Berlino è andata in scena ieri una grande e sanguinosa fiction. Di cui è un frammento reale anche una parte della storia del manifesto. Che trae le sue lontane origini proprio dalla Libia, quando nel 1951 Valentino Parlato fu cacciato a Tripoli dagli inglesi, all’età di vent’anni, a causa della sua militanza comunista quando ormai il Paese africano non era più la nostra «quarta sponda» ma ricadeva sotto il protettorato britannico.

E che cosa ci sarebbe oggi di più comunista e di giusto che chiedere il ritiro delle truppe e dei mercenari stranieri dalla Libia come è stato fatto ieri alla conferenza di Berlino? Sarebbe una seconda o terza decolonizzazione dopo i raid francesi, statunitensia e britannici del 2011 per far fuori Gheddafi. Ma come vanno davvero le cose?

Il ministro tedesco Heiko Maas ha dichiarato a Berlino davanti al segretario di Stato Usa Antony Blinken (atteso a Roma lunedì per la conferenza sull’Isis) e ai russi: «Oggi vogliamo mettere i presupposti per andare avanti nel percorso iniziato, bisogna rendere operativa l’uscita delle forze politiche straniere e che questo deve iniziare ad accadere». «Forze politiche», dice Maas: i militanti jihadisti e i droni di Erdogan in Tripolitania sono forze politiche? Sono forse «forze politiche» gli aerei degli Emirati e i mercenari russi e gli egiziani che supportano Haftar in Cirenaica.

È evidente che in Libia facciamo finta di che cosa stiamo parlando e che in Europa non abbiamo neppure il coraggio di nominare le cose quelle che sono.
Ma che cosa è accaduto davvero a Berlino? Nulla di che. Erdogan resta in Tripolitania, i mercenari russi della Wagner mantengono la loro linea Maginot nella Sirte, insieme al generale Khalifa Haftar, agli Emirati e all’Egitto, che una base in Libia – come del resto anche Mosca – la vorrebbe davvero. Si chiama «profondità strategica» e nessuno vuole concederla a un altro, qui, sulle sponde del Nordafrica, come nel lontano Afghanistan.

La realtà è che in Libia tutto rischia di saltare per gli interessi contrapposti tra i libici e le potenze internazionali. A partire dalla data delle elezioni del 24 dicembre. Le elezioni di dicembre in Libia sono a rischio per il segretario generale dell’Onu Antonio Guterres, che in un video inviato alla conferenza di Libia ha sollecitato «misure stringenti» per arrivare a questo obiettivo. Guterres ha invitato in special modo a «chiarire presupposti costituzionali» e a emanare le leggi necessarie per arrivare alle urne. Il segretario dell’Onu ha inoltre ribadito che le truppe straniere debbano lasciare il paese e ha annunciato l’invio di osservatori per assicurare il rispetto della tregua. Sono belle e alate parole quelle del capo del Palazzo di Vetro. Ci crederemmo pure.

Se non ci fossero in gioco le vite dei migranti, dei libici e dei poveri del mondo, la Libia sarebbe un risiko per intrattenere e trastullare le ambizioni di grandi e medie potenze. Invece è una tragedia dove centinaia di migliaia di persone sono detenute in campi di concentramento e lanciate in mare sui barconi. Il presidente americano Biden, insieme ai maggiordomi europei, quando parla di diritti umani è sempre pronto a rivendicarli contro Russia, Bielorussia, Iran e Cina, mai contro i suoi alleati egiziani, israeliani e turchi. Meno che mai per quella Libia dove i rifugiati, trattati come merci, arrivano a frotte dall’Africa del Sahel e più lontano ancora. Eppure gli Usa, dal Medio Oriente all’Africa, hanno bombardato in questi decenni a tutto spiano lasciando stati inceneriti come moncherini e popoli senza futuro.

La conferenza di Berlino sulla Libia è stata l’apoteosi di questa ipocrisia occidentale. Nessuno, né a Est né a Ovest, se ne vuole andare dalla Libia se non con qualche contropartita importante. Non se ne va Erdogan, premiato adesso dall’Unione europea, con un aumento di contributi (da sei a otto miliardi di euro), come guardiano dei profughi dal Medio Oriente; non se ne va la Russia che ha investito su Haftar ma punterebbe pure su Seif Islam, il figlio di Gheddafi, di cui è stato amico e socio in affari l’attuale premier di Tripoli Dbeibah.

Per non parlare dell’Egitto di Al Sisi che nessuno ha il coraggio di nominare come dittatore e macellaio della gioventù egiziana, come se Regeni e Zaki fossero ormai da archiviare tra gli incidenti della storia. Fenomenale è poi la scena italo-libica. Il presidente libico Menfi l’altro giorno è venuto a Roma ricevuto per venti minuti da Draghi. Menfi era infuriato perché una Ong italiana ha convocato a Roma un dialogo tra le tribù del Fezzan – zona di grande interesse per la Francia – e ha attaccato non solo la Farnesina, che si è prontamente sfilata, ma soprattutto la ministra degli esteri libica Najla el-Mangoush – in quota Cirenaica – che aveva dato il suo parere favorevole. Vedete bene in che mani siamo.