Son tanti, 20.000 giorni. Soprattutto se ti chiami Nick Cave e hai una carriera alle spalle iniziata con i seminali Birthday Party, formazione australiana cruciale per le sorti del cosiddetto post-punk. Soprattutto dopo avere segnato buona parte degli anni Ottanta con album indimenticabili come The Firstborn Is Dead, e avere dimostrato anche nel decennio successivo con dischi come Henry’s Dream, Let Love In e Murder Ballads di essere una delle poche teste pensanti in circolazione del rock’n’roll.

I problemi per Cave sono sopraggiunti con la canonizzazione coatta a furor di popolo che lo ha portato a sedere nelle sfere celesti delle eminenze rock. La beatificazione di Cave da parte dei media ha provocato sia una sorta di sovraesposizione che un evidente affaticamento della musa del musicista, crisi rappresentata ottimamente da Nocturama. Ed è proprio in quello scorcio di primi anni Zero che Cave riprende a interessarsi al cinema dopo l’esperienza di Ghosts… of the Civil Dead del 1989 diretto dal fedele John Hillcoat. Ed è cavallo di questo riattivato interesse per il cinema che Cave si separa da Blixa Bargeld, famigerato chitarrista degli Einstürzende Neubauten e dà vita insieme all’irsuto violinista Warren Ellis al progetto Grinderman nel quale il musicista torna a rivisitare il feroce rock-blues metallico di matrice stoogesiana.

20000daysonearth-2

Nel ripensare una band di fatto senza una chitarra portante e il lavoro sul cinema, la musica di Cave (ri)trova una dimensione immaginifica che Push the Sky Away coglie con notevole felicità e precisione. 20.000 Days on Earth (solo oggi e domani nelle sale italiane), ossia il numero dei giorni vissuti da Cave sinora, presentato all’inizio di quest’anno prima al Sundance, poi a Berlino e a Nyon a Visions du Rèel, firmato da Iain Forsyth e Jane Pollard, giunge dunque come una consacrazione di questo straordinario autunno della creatività caveiana. Film dalla vocazione indiscutibilmente felliniana, ma declinata come in un onirico saggio documentario di cinema-veritè, Cave mette in scena se stesso e i suoi fantasmi, rivela parte del suo processo creativo, ripercorrendo e confondendo passato e presente della sua parabola artistica. Alla guida di una Jaguar, come Edith Scob in Holy Motors, Cave dialoga con persone provenienti dal suo passato e non solo. Inevitabilmente il momento più lancinante riguarda la materializzazione nella Jaguar di Blixa Bargeld che aveva abbandonato i Bad Seeds inviando a Cave una email di sole due righe.

Compaiono inoltre Kylie Minogue (altro punto di contatto con Holy Motors con la quale aveva interpretato il brano Where the Wild Roses Grow nell’album Murder Ballads e l’attore Ray Winstone. Lo sforzo compiuto dai due registi di creare un corrispettivo oggettivo in grado di dare corpo e forma sia al mondo che al processo creativo di Nick Cave produce un universo coerente di segni e suoni tanto più convincente in quanto assolutamente artificiale.

L’archivio caveiano, infatti, è una pura invenzione felliniana, quasi un ciak abbandonato di Brazil. Rispetto alla retorica e alla sintassi tradizionale del rockumentary, ancorato all’inevitabile alternanza di teste parlanti e materiali d’archivio, cosa che rende strutturalmente identici fra loro film su musicisti diversissimi, 20.000 Days on Earth tenta con grande coraggio una struttura narrativa propriamente cinematografica, integrando la musica nel tessuto del racconto evitando di utilizzarla come mero strumento pubblicitario e/o denotativo. Anche i momenti che vedono Cave in azione dal vivo trovano nel film una motivazione narrativa forte essendo il palco il luogo dove la musica si trasfigura in osmosi e comunicazione, performance e scambio, luogo quindi sempre al centro del processo di creazione, anzi parte integrante di esso e sua verifica attiva.

Ed è proprio il tentativo, difficile ma assolutamente riuscito, di dare forma al processo creativo di Cave, come un mondo a parte, un ecosistema ancorato nel blues e nel punk, in grado godardianamente di evitare la semplice somma aritmetica delle singoli parti che compongono l’insieme degli elementi della poetica di Cave, a offrirsi come l’elemento più interessante e convincente del film di Forsyth e Pollard.
Un film di fantasmi, dunque, 20.000 Days on Earth, nel quale l’eco della musica diventa la traccia testimoniale di una presenza inquieta, creativa transitoria eppure lucidamente vivida. Proprio come i sogni, d’altronde. Quelli che si fanno a occhi aperti, contando i propri giorni sulla terra.