L’assegnazione del premio Nobel per la Pace al Programma Alimentare Mondiale (Pam) è un conferimento che va letto in chiaroscuro, in un anno speciale come il 2020. Nella filigrana della motivazione del Nobel si intravedono richiami geopolitici di indubbio rilievo. La selezione di un programma delle Nazioni Unite era forse obbligata nel 75° anniversario di vita di questa istituzione. Il Pam si è dato un gran daffare nel 2020: ha aumentato la propria operatività contro le carestie mondiali fissando l’obiettivo di raggiungere 138 milioni di persone entro l’anno (gli aiuti del Pam sono arrivati a 85 milioni nei primi sei mesi dell’anno) e ha ottenuto il record di finanziamenti della sua storia (8 miliardi di dollari). Ha lanciato ripetuti allarmi sul rischio di una pandemia di fame dovuta alla combinazione tossica di conflitti, cambiamenti climatici e Covid-19. Ma la scelta del Pam resta frutto di una visione a corta gittata, se si ha qualche contezza su ciò che si muove nel mondo e dei segnali che vengono da questo tempo della storia così tormentato.

IL NOBEL per la pace 2020 rimanda a due questioni mondiali fondamentali: il progressivo ritorno della fame su scala globale e l’altrettanto progressivo indebolimento delle Nazioni Unite. L’arrivo della pandemia provocata da Covid 19 ha contribuito a rendere più intricate entrambe le questioni. Partiamo, a ritroso, dalle Nazioni Unite, riunite in assemblea generale virtuale. Voglio pensare, benevolmente, che il Nobel al Pam sia un educato ma inequivocabile richiamo agli Stati uniti, e al ruolo che hanno avuto nella creazione delle Nazioni Unite, proprio nell’anno in cui l’amministrazione Trump ha contribuito di gran lena ad affossare l’azione e la credibilità dell’Onu, a cominciare dalla Organizzazione Mondiale della Sanità per arrivare di riflesso al Consiglio di Sicurezza, rimasto a lungo silente sulla vicenda Covid 19. Un segnale pro-multilateralismo, insomma, a poche settimane dall’appuntamento delle presidenziali Usa. Di tutti i rami dell’Onu, il Pam è infatti il più geneticamente americano. Fu concepito nel 1961 dall’ispirazione di un uomo, George McGovern, allora direttore del neonato US Food for Peace Program, e creato in tutta fretta nello stesso anno per ordine del presidente Dwight Eisenhower. L’idea era sperimentare l’assistenza alimentare tramite il sistema multilaterale e così mostrare il forte sostegno americano al sistema ONU, in una fase congiunturale di consistenti surplus di cibo negli USA. La leadership statunitense ha segnato la storia della organizzazione, incluso l’attuale direttore generale.

POI C’È LA FAME che torna alla grande ad affliggere il pianeta, mentre tutti si riempiono la bocca con lo sviluppo sostenibile. Questa l’altra gigantesca questione richiamata nella motivazione del Nobel, che cita ovviamente gli scenari di guerra ma anche gli effetti della pandemia. L’ultimo rapporto Fao su Sicurezza Alimentare e Nutrizione Mondiale nel 2020 dice che 2 miliardi di persone nel sud globale soffrono di insicurezza alimentare – 746 milioni in forma severa. Con l’impatto delle misure di lockdown per fermare Covid 19, 25 paesi sono sull’orlo di una fame devastante. Il numero di persone esposte alla denutrizione è destinato a crescere da 149 a 270 milioni entro la fine dell’anno in questi paesi, con una proiezione di 6000 bambini morti al giorno. Una matematica degli orrori massificante, che fa intuire come la questione sia seria, forse persino sfuggita di mano. La Fao, pur con tutte le difficoltà di un negoziato che procede su canali virtuali, sta affrontando due dossier decisivi per regolamentare il futuro accesso globale al cibo: quello sui sistemi alimentari e quello sull’agro-ecologia. Dibattiti tortuosi e con molti oppositori, in corso mentre scriviamo. E allora, in questo scenario, ha senso esaltare con un Nobel per la pace l’approccio umanitario al cibo che Pam statutariamente interpreta? Dopo decenni di deviante narrazione emergenziale, pensiamo veramente che sia ancora possibile puntare al cibo in termini di assistenza, di diritto umanitario, laddove è un diritto umano fondamentale? Mentre Covid 19 ci invita a uno sguardo sistemico di interconnessione tra salute, cibo, natura, discriminazioni, finanza, economia, è ancora possibile proporre la soluzione umanitaria come viatico della pace, la umanitarizzazione dei diritti?

NELLE SUE filiere di distribuzione, Pam non usa cibo qualunque. Si avvale di una vasta gamma di specialized foods, cibo fortificato, polveri con micronutrienti, alimenti pronti all’uso e biscotti energetici prodotti da poche multinazionali che ne detengono il brevetto. Insomma, nulla di più lontano dalla nozione di sovranità alimentare che il mondo dovrebbe perseguire, per riscattarsi finalmente dal modello di agricoltura industriale e intensiva che uccide il pianeta, con uso di pesticidi, abbattimenti di foreste, ricorso massiccio ad antibiotici e sfruttamento animale. Il prossimo anno si terrà a New York il summit sui Sistemi del Cibo voluto dal segretario generale dell’Onu. In teoria, una grande opportunità per attaccare le cause della fame nel mondo e creare i presupposti della sicurezza alimentare. C’è un problema però: la rappresentante Onu del Summit è Agnes Kalibata, presidente di Agra, il grande partenariato pubblico-privato finanziato dalla fondazione Rockefeller e dai Gates per promuovere il modello intensivo dell’agricoltura in Africa. Se questi sono i presupposti, non andremo lontani. Gli Stati Uniti e Bill Gates non amano la domanda di agroecologia che viene dai paesi del sud del mondo. Speriamo che il Nobel conferito al Pam non sia, per loro, la risposta rassicurante.