L’ordine del giorno del primo vertice tra Giuseppe Conte e i capidelegazione dopo l’atteso voto del 20 settembre indica una voce sola, il passaggio al 5G, e sono in molti a pensare subito sia solo fumo negli occhi. Sembra ovvio che sul tavolo ci siano invece i rapporti tra i partiti di maggioranza dopo lo scossone elettorale, con tanto di nodi dolenti vicini al pettine: i decreti Sicurezza, la legge elettorale, il Mes ma probabilmente anche il precipitare della crisi Atlantia, con l’accordo di luglio tornato in alto mare.

Non è così. Il capitolo 5G è davvero urgente. Martedì prossimo arriva a Roma Mike Pompeo, segretario di Stato Usa, e ha già fatto sapere che l’amministrazione di Washington, con le elezioni alle porte, vuole una posizione chiara dell’Italia sulla cybersecurity e i rapporti con Huawei. Rompere i ponti con la Cina e lavorare per la creazione di una tecnologia alternativa 5G occidentale: questa sarà la richiesta secca dell’americano e bisogna mettersi in grado di rispondergli. La conclusione del vertice sembra predeterminata. L’Italia si allineerà alle direttive della Ue. Le quali però ancora non ci sono. Tra Francia e Germania la differenza di vedute va un po’ oltre le semplici sfumature e l’Italia, tramite ministro degli Esteri Luigi Di Maio, ha aperto una porta a Huawei. Il che, secondo Washington ma anche secondo Bruxelles, costituisce un rischio grosso per la sicurezza, dal momento che la monumentale mole di dati in mano all’azienda cinese finirà a Pechino.

Il vero tema all’ordine del giorno è dunque come muoversi in attesa di una posizione europea univoca e chiara: se e quanto restringere le porte della collaborazione con i cinesi. Il Pd è attestato sulla linea più dura. I 5 Stelle vogliono lasciare più spazio al dialogo. Non è un nodo facile da sciogliere e ai convenuti a palazzo Chigi (Conte, i ministri Gualtieri e Patuanelli che avevano già fatto il punto in un prevertice, i quattro capidelegazione ma anche Di Maio, il ministro della Difesa Guerini, quello delle Politiche europee Amendola e il sottosegretario Fraccaro) non resta tempo per addentrarsi più che tanto nel resto della corposa agenda. L’esito è fumoso è e tutto lascia credere che tutti i nodi reali siano ancora da sciogliere: «Appare assolutamente prioritario perseguire una strategia di indipendenza tecnologica nell’ambito dell’Unione europea con pieno impegno del governo per assicurare pieno coordinamento delle varie iniziative europee». Che Pompeo si accontenti di questo fiume di parole è poco probabile.

Ma in realtà per qualsiasi soglia si passi, incluso il 5G, si arriva sempre allo stesso punto: i rapporti tra Pd e M5S e l’obbligo di modificare gli equilibri senza però tirare troppo la corda, evitando cioè un’esplosione del Movimento che travolgerebbe il governo. Operazione di equilibrismo tra le più difficili. Di Mes si è parlato appena ma si può quasi scommettere che si continuerà a non parlarne. In fondo non c’è alcun obbligo a decidere per il 15 ottobre e Conte è determinato a non farlo: prima la legge di bilancio con all’interno il Piano sanità che Speranza dovrà delineare. Solo alla fine i conti, nei quali entrerà il Recovery Fund che, contro le previsioni iniziali, dovrebbe poter essere adoperato anche per la Sanità. Ma sempre stando attenti a non calcare troppo la mano perché i 5 Stelle devono essere «tenuti in piedi».

Diversa la situazione per quanto riguarda la crisi Atlantia. Su quel fronte tra Conte, Pd e 5S c’è notevole sintonia e l’ostacolo potrebbe arrivare casomai da Italia viva. Ma non è quello il vero scoglio. Sono i Benetton, che non intendono dar seguito all’intesa del 15 luglio, o almeno la hanno interpretata in modo sensibilmente diverso dal governo italiano. Il nodo è l’obbligo di vendere la quota delle azioni di Autostrade detenuta da Atlantia alla Cassa depositi e prestiti: l’88%. Autostrade, dopo la rivolta dei soci di minoranza nel consiglio d’amministrazione, ritiene invece di non dover necessariamente vendere alla Cdp ma di potersi rivolgere anche ad altri possibili investitori istituzionali. Di fatto l’accordo di luglio è stato denunciato. Lo scambio di lettere roventi è già iniziato e Conte si trova di fronte all’eterno dilemma: procedere con la revoca, e con la causa che ciò comporterebbe, o cercare un’ennesima mediazione.