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Sul palco, un’emozione irrinunciabile

Sul palco, un’emozione irrinunciabile

Jazz Track Niente può sostituire l’emozione di assistere alla musica durante il suo farsi, specialmente se questa musica è il jazz. Comunque possiamo recuperare quei momenti nelle registrazioni dal vivo che, se […]

Pubblicato 3 mesi faEdizione del 29 giugno 2024

Niente può sostituire l’emozione di assistere alla musica durante il suo farsi, specialmente se questa musica è il jazz. Comunque possiamo recuperare quei momenti nelle registrazioni dal vivo che, se non altro, hanno il pregio di rendere disponibili per le future generazioni l’immenso patrimonio di questa musica.

Siano dunque benvenute le uscite discografiche di performance colte direttamente sui palchi di sale da concerto o di piccoli club. The Cloth I’m Cut from (autoproduzione) è stato registrato al Cliff Bell’s di Detroit, città dove è nato nel 1973 e risiede l’altosassofonista, compositore e docente afroamericano Mike Monford.

Cinque brani, di cui due a suo nome, che costituiscono una sorta di autobiografia sonora con un settetto tra i quali spiccano la giovane violinista Bebe Sewell (ancora acerba ma di sicuro interesse per come sa infilare citazioni sorprendenti nei suoi interventi), il trombettista Allen Dennard e il pianista William Hill. Monford persegue una sintesi tra jazz, hip hop, afrolatin e sul suo strumento si rifà alla esperienza dell’hard bop non ortodosso di Jackie McLean, suo insegnante e qui omaggiato con il modale Jack’s Tune, con riferimenti anche al free.

Da notare la esecuzione di Throw it Away, dolcissima ballad del 1973 della cantante Abbey Lincoln, pezzo conclusivo di un disco che ha il merito di farci conoscere una scena eccentrica rispetto alle più note capitali del jazz come New York ma egualmente interessante.

Similmente il Tirolo difficilmente è associato alle musiche improvvisate eppure lì è stato registrato Live in St. Johann (FSR Records) di un vero e proprio supergruppo della free music europea: la contrabbassista francese Joëlle Leandre, la pianista austriaca Elizabeth Harnik e il percussionista sloveno Zlatko Kaucic.

Tre quarti d’ora di musica improvvisata suddivisa in cinque episodi di monumentale bellezza. Inutile dire che Leandre magnetizza l’attenzione in virtù della sua proverbiale capacità drammaturgica enfatizzata dall’uso della voce che ha fatto tesoro delle ricerche della musica contemporanea e della nuova vocalità in ambito jazz. Non c’è un attimo di stasi in questo concerto, nessuna incertezza o comprensibile momento di vuoto creativo; come se per magia le menti dei tre musicisti agissero in completa sintonia su un tracciato o una mappa di un percorso predefinito.

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