Chi ha ragione, Umberto Bossi che riconosce a Silvio l’eterno nemico-amico lucidità strategica e capacità residue di protagonismo o il sito dell’Ncd che ha già scritto il classicheggiante epitaffio: «Ei fu»? Entrambi. Però in misura diversa ed è il lombardo a centrare meglio il bersaglio.
Domenica scorsa a Bologna l’ex asso pigliatutto di Arcore ha fatto l’unica mossa che aveva a disposizione, e la ha fatta, come sempre nei momenti davvero difficili, senza perdersi in dubbi e indecisioni, come invece gli è invece spesso capitato in circostanze favorevoli. Allo stesso tempo, adattandosi a un quadro del tutto diverso da quello del quale era abituato a essere l’assoluto protagonista, ha effettivamente sancito la fine di un’epoca che resterà legata alla sua immagine e al suo nome.

Per vent’anni Silvio Berlusconi è stato il re della destra, e di conseguenza l’uomo chiave dell’intero sistema politico, in virtù di una straordinaria capacità di tenere insieme elementi incompatibili: la destra radicale, sia nella versione leghista che in quella ex fascista, e la maggioranza moderata che da sempre rappresenta la porzione determinante dell’elettorato. In questo equilibrio, l’impolitico di Arcore occupava il centro della scena, oscillando tra moderatismo e radicalismo a seconda delle circostanze e delle convenienze. La piazza di Bologna sigla la fine di ogni possibile miraggio di ripetere oltre tempo massimo quello schema di gioco politico, e il perché, in fondo ha un nome e un cognome: Matteo Renzi.

Per la prima volta dalla fine della Prima Repubblica, l’elettorato moderato, intimamente di destra ma terrorizzato da ogni radicalismo, ha un’alternativa all’impero di Arcore: il Pd, un partito che può permettersi il lusso di definirsi di centrosinistra, sapendo che tanto non gli crederà nessuno, e ramazza consapevolmente voti nel bacino del centrodestra, di cui adotta strategie e slogan. Ancora più dell’età avanzata o delle disavventure giudiziarie, è questo sovvertimento del panorama politico complessivo a rendere impossibile quel ritorno allo schema della “coalizione” che Berlusconi ha continuato a sognare e inseguire sino a domenica scorsa. L’esito disastroso dei tentativi centristi che si sono susseguiti negli ultimi anni è a sua volta un conseguenza dell’occupazione dello spazio politico di centrodedstra da parte del partito sedicente di centrosinistra.

Per restare in gioco, Berlusconi aveva una sola chance: farsi parte integrante e persino promotore di un nuovo centrodestra in cui assumere in prima persona il ruolo di rappresentante del moderatismo, lasciando ampio spazio e quasi certamente la guida del processo all’ala radicale di Matteo Salvini e di Giorgia Meloni. Ha scelto di fare quel passo e non tornerà indietro. E’ in compenso certo che proverà a coagulare intorno alla propria sedia da regista non i partitini moderati, dei quali nulla gli importa dato che ne conosce l’inconsistenza e che sa essere già cespugli del Nazareno, ma le liste civiche come quelle di Diego Della Valle, Corrado Passera e soprattutto di Alfio Marchini a Roma. La partita che si giocherà nella Capitale è fondamentale proprio perché si vedrà lì se Berlusconi è in grado di contrapporre con successo un’ala moderata a quella estrema, bloccando la candidatura di Giorgia Meloni o di un’altra figura affine, e poi se quella eventuale candidatura Marchini con benedizione e supporto azzurri sarà capace di vincere le elezioni. Gli equilibri futuri della destra dipendono in larga misura dalla soluzione di questo rebus.

Praticamente tutti i colonnelli azzurri, ieri, hanno ripetuto, come una stanca litania, che ora è il momento di recuperare la centralità perduta: evviva l’accordo con Salvini e Meloni, ma riprendiamoci la leadership. Berlusconi è più lucido: sa meglio di loro che quel recupero, ammesso che sia possibile, non passa certo per gli sgangherati resti del partito azzurro.