Eppure dopo il golpe di febbraio che ha portato al massacro di 850 adulti e bambini, arresti in massa, fame e torture, l’America era stata la prima a imporre sanzioni e protestare in molte sedi. Biden sapeva bene che il presidente russo – con Xi Jinping – è uno degli alleati più potenti dei generali: il Pentagono certo gli aveva accennato dell’enorme armamentario acquistato per miliardi di rubli e yuan dalla giunta militare di Naypyidaw che lo sta usando contro la sua gente. La più recente è la commissione a Mosca di sofisticati sistemi missilistici terra-aria e droni di sorveglianza Orlan-10 di nuova generazione.

A Biden non sfugge che nonostante l’embargo non sono poche le stesse aziende occidentali (anche italiane) fornitrici di tecnologia, armi o impegnate nella costruzione di infrastrutture per lo sfruttamento dei territori di popolazioni spesso evacuate con la forza.

Diverse minoranze etniche armate sono tornate sul piede di guerra per sostenere il movimento della disobbedienza civile anti golpista e le sue nuove filiazioni non pacifiste delle «Forze di difesa popolare», che hanno già ucciso a quanto pare più di 100 soldati e poliziotti in varie città dove sono sorte e si moltiplicano con il supporto di giovani che vanno ad addestrarsi dai vecchi guerriglieri un tempo considerati «terroristi».

Il silenzio di Biden che pure aveva chiesto pubblicamente la fine dei soprusi militari, è l’imbarazzo di un uomo molto più debole degli interessi in ballo. Secondo l’analista Robert Kaplan «il crollo della giunta in Myanmar dove incombe la competizione per l’energia e le risorse naturali tra Cina e India – scrive su Foreign Affairs -minaccerebbe le economie vicine e richiederebbe un massiccio intervento umanitario via mare». Forse è un’esagerazione ma serve a spiegare la cautela della comunità internazionale e di quella dei paesi confinanti del sudest asiatico associati nell’organismo transnazionale panasiatico chiamato Asean che ha tra i sui membri alleati chiave di Washington, di Pechino o di entrambi. Ogni contraddizione è risolta per ora nell’interesse comune dei grandi blocchi impegnati in una potenziale guerra fredda a sorvolare sui doppi giochi dell’uno o dell’altro paese membro, pur di mantenere rapporti cordiali e di mutua convenienza.

Ma come metterla con le violazioni umanitarie del Myanmar? La sua presenza nell’Asean è ancora più imbarazzante di un’ipotetica membership della Bielorussia nella Ue, ma è stato il primo tra i paesi dell’alleanza a conquistare il titolo di partner «strategico globale» della Cina, un gradino appena sotto all’alleato numero uno Mosca. L’Asean non ha ancora l’ambizione di diventare una Comunità come quella europea e molte norme eticamente vincolanti per ogni stato membro – come quelle sul rispetto dei diritti umani – vengono sistematicamente ignorate.

Nonostante l’evidenza delle atrocità commesse in questi quattro mesi e mezzo nessun governo dell’Asean ha mosso un dito al di là del criticare «la lentezza del processo di pacificazione».

È in questa vasta e disunita regione cuscinetto tra i grandi blocchi politici est e ovest che tenta di farsi breccia un organismo vicino alla Nato chiamato Quad e formato dai quattro pilastri di un’alleanza filo-americana che comprende l’India, il Giappone e l’Australia, ai quali potrebbero aggiungersi presto Canada, Francia e forse Inghilterra.

Tanti big della tradizionale alleanza atlantista hanno i loro referenti nei paesi «amici» di area come la Corea del sud che ha investito pesantemente in Myanmar, la Thailandia, o lo stesso Vietnam, abituato più di tutti a districarsi tra Cina e Usa traendone notevoli benefici economici. Hanoi non ha speso una parola contro il colpo di stato, e poco di più ha detto il premier thailandese, un ex militare a sua volta golpista.

Negli anni del governo ibrido civile-militare di Aung San Suu Kyi, qualcuno a Washington sperava di portare il Myanmar stabilmente dalla sua parte dello schieramento Nato-Quad e sottrarlo all’asse Mosca Pechino formalizzato 20 anni fa con la nascita dell’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai che comprende parecchie repubbliche centroasiatiche, Nepal, Sri Lanka, gli islamici Iran, Pakistan, Afghanistan, Turchia. Ma l’illusione coltivata anche dai giovani birmani e gli attivisti etnici si è infranta di fronte all’evidente impotenza del mondo «democratico» contro un paese dalle spalle tanto protette.

La distopica realtà-prigione del Myanmar è racchiusa nel perimetro fisico dell’Unione ma anche dentro le menti di chi come i giovani della generazione Z, cresciuti in relativa libertà e inedite aperture verso realtà etniche nazionali e culture straniere conosciute in rete, si sente scivolato in un pozzo addirittura ancora più profondo di quello delle passate versioni della dittatura.

Perdonando ai generali tutti i crimini commessi e divenendone alleata, Aung San Suu Kyi da capo informale del governo si era consapevolmente schierata più con Pechino che con i vecchi amici dell’occidente, meno propensi a incensarla come in passato. È caduta però vittima del suo stesso culto che la rende insostituibile, e dunque elemento di instabilità in caso di malattia o morte senza un erede politico che garantisca un giorno al suo posto il rispetto degli accordi presi.

Per questo Xi Jinping le ha preferito leader militari sfornati da una istituzione solida come l’esercito, non temporanea come un partito condizionato da un singolo individuo.

I comandanti generali sono rimasti in carica spesso ben oltre i limiti di età anche per preparare il proprio successore, come fece Than Shwe che a 78 anni ha nominato il suo fedele ex attendente Min Aung Hlaing, oggi 66enne capo dello stato oltre che comandante dell’esercito e leader del golpe di febbraio. Dieci anni in meno di Suu Kyi, il generale terrà prevedibilmente l’ex alleata il più possibile fuori dalla portata di tutti, lasciando che, a meno di soprese, trascorra la sua vecchiaia in isolamento come è accaduto il giorno del suo 76esimo compleanno, il 19 giugno.

Paragonata alle principesse delle favole rinchiuse nei castelli, Suu Kyi aveva atteso un quarto di secolo che il principe azzurro con il volto di Obama venisse a liberarla 11 anni fa dagli arresti domiciliari nella sua casa sul lago Inya di Rangoon. Ma con tutta la buona volontà ora nessuno saprebbe nemmeno dove trovarla. E se anche Biden avesse chiesto a Putin della sua sorte, si sarebbe sentito rispondere che non ne sapeva niente.