C’è una scommessa su cui prima ancora delle opere si fonda la Biennale delle immagini in movimento nella sua «versione» torinese: i luoghi. Non solo lo spazio fisico dell’Ogr dove la storica manifestazione ginevrina ha «re-installato» l’edizione 2018 ma soprattutto la ricerca di una relazione con essi capace di determinare il lavoro dei singoli artisti, che dunque non sarà mai neutrale, radicandolo profondamente in quel contesto. È questa anche la caratteristica della Biennale diretta da Andrea Bellini, che ha voluto dal suo arrivo, nel 2014, trasformarla decidendo di produrre le opere commissionate in rapporto a dove avrebbero preso vita. Ed è un segno ancora più forte pensando all’Ogr, le Officine Grandi Riparazioni, nei cui padiglioni tra la fine dell’Ottocento e gli inizi degli anni Novanta quando sono state chiuse, venivano riparate prima le locomotive a vapore, elettriche e poi, nel dopoguerra, le automotrici. Il recupero ha puntato a mantenere la memoria del passato, nel progetto «com’era, com’è» curato da Alice Delorenzi e Roberta Zandrini, si costruisce un itinerario tra le storie di chi ha abitato le Ogr, gli operai prima del fordismo che avevano in mano l’intera sapienza e non il dettaglio della catena di montaggio e quella d’Italia. Le voci raccolte nei «cassetti» ci dicono degli scioperi, ricordano l’amianto che era nella ferrovia, parlano di migrazioni, dal sud al nord, di infanzie contadine, con tavole che spesso mancavano di cibo, sulle quali un uovo fresco si divideva perché era un regalo.

COL TITOLO The Sound of Screen Imploding la Biennale – catalogo in autunno a cura di Corraini Edizioni, a settembre verrà completata da un programma di film nella sala del cinema Massimo – interroga il senso delle immagini oggi, il loro posto (e ruolo) oltre lo schermo (cinematografico), ne cerca un’essenza che vive e prende forma sui confini di fruizioni, visioni, modalità di presentazione. A curarla insieme a Bellini è Andrea Lissoni, senior curator alla Tate Gallery che di moving images è teorico e sperimentatore tra i migliori, in sinergia anche con le origini della Biennale stessa, nata nel 1985 come International Video Week mettendo appunto al centro la questione degli scambi tra cinema e arti visive.

 

Ognuno degli autori proposti cerca di confrontarsi con le domande che nascono dalle immagini rispetto al nostro o tempo, alle sue urgenze politiche, di rappresentazione, al racconto della realtà. Da qui sviluppa un’opera che «invade» ogni stanza, vi si radica inventando una propria geografia della percezione, una diversa fisicità di luci, ombre che appare quasi il microcosmo del mondo.
Due le coproduzioni, Party on the CAPS di Meriem Bennani, artista marocchina che vive a New York e Womb Life di Tamara Henderson, canadese che vive a Londra.

IL PRIMO, molto suggestivo (è anche il prologo del percorso espositivo), immagina una società governata dal progresso biotecnologico nella quale è stato introdotto il teletrasporto. Un coccodrillo, Fiona, racconta come si vive su CAPS, una sorta di isola nel mezzo dell’Atlantico, su cui sono detenuti gli immigrati «clandestini»,tutti coloro che hanno attraversato «illegalmente» le frontiere divenuta negli anni una megalopoli. Bennani lo definisce «un documentario al 100%» che dialoga col presente dei muri rivendicati da Trump – o richiesti a gran voce dai leghisti nostrani come dai loro sodali sovranisti europei. Dice: «CAPS rappresenta per me un’analogia della diaspora o della migrazione forzata. È un sentimento che sperimento su me stessa visto che ho bisogno di un visa per andare ovunque. Ho provato a partire da qui e a immaginare le conseguenze delle biotecnologie rispetto alla nostra percezione del corpo e della sua mortalità proiettando le mie ’fantasie’ nel mio Paese, il Marocco, dove per me il senso del corpo e della morte sono molto forti».

IL «PARTY» del titolo girato in tempo reale, dal pomeriggio alla sera, e è il compleanno della nonna dell’artista, a suonare c’è la musicista Khadija El Ouarzazia col suo gruppo tutto di donne mentre gli invitati si teletrasportano sull’«isola» dove ci sono altri della famiglia che non possono uscire da lì. In questo bordo di sospensione prende forma l’inquietudine di fronte a un futuro già attuale che confonde progresso (tecnologico) con controllo, CAPS è un non luogo e insieme un luogo del presente.

Se Womb of Life nasce dai «detriti» di un set cinematografico, provando a riempirli di altri significati, Wildcat (Aunt Janet) di Kahlil Joseph, americano – è nato a Seattle – che a partire dall’unione tra suono e movimento nella sua pratica artistica mette al centro l’esperienza dello spettatore, è un «film» in bianco e nero che nello spazio di una visione moltiplicata intreccia il quotidiano degli african american al mito della frontiera. Joseph lo descrive come un «esperimento ispirato alla musica jazz«, scandito dalla composizione musical di Flying Lotus.

Wildcat è il nome della comunità african american di Grayson, in Oklahoma dove è stato realizzato il film, tradizionalmente legata alla cultura del rodeo. Istanti di vita quotidiana dei cow-boy, una ragazza vestita di bianco, i suoi sogni, Aunt Janet, che ha fondato il rodeo di Grayson – ed è morta prima che il film fosse finito. L’America di ieri, e quella di adesso, i suoi conflitti, le sue realtà.